Descrivere gli eroi senza inutile retorica
Comandante, ultimo film di Edoardo De Angelis, cosceneggiato da Sandro Veronesi, avrebbe potuto prestare il fianco a un eccesso di retorica. Sarebbe stato molto facile cadere nel tranello raccontando un reale episodio ai più sconosciuto della seconda guerra mondiale. Un comandante di sommergibile, Salvatore Todaro, decide di salvare i naufraghi di un mercantile belga che trasportava materiale bellico britannico, violando qualsiasi norma militare in tempo di guerra e non solo i propri gradi. In un’epoca in cui la questione sui salvataggi in mare e sui migranti sta diventando un genere anche cinematografico-belli o brutti ci sono parecchi film basati sulla problematica- e non solo politico, l’intuizione di De Angelis e di Veronesi appare vincente. Perché entrambi hanno avuto la capacità di allargare l’ottica, di andare oltre a ciò che risulta molto chiaro, annullando qualsiasi tentazione demagogica e creando un film importante che per trama, recitazione, realizzazione dovrebbe riscuotere anche un buon successo sul mercato internazionale. Spesso si parla di provincialismo del nostro cinema. Comandante, pur narrando di Italia all’ennesima potenza, naviga nella direzione opposta.
L’Anabasi per spiegare Todaro
Todaro è Senofonte. Non a caso l’Anabasi diventa ben presto la traccia che serve a comprendere il personaggio interpretato dallo strepitoso Pierfranceso Favino. La spiegazione del Comandante sta tutta nel foglietto scritto dal medium Paolo Bonacelli-grande attore di teatro e non solo-in cui si fa riferimento al mito di Bellerofonte, colui che uccise la chimera, ma che in realtà racchiude molte similitudini con la vicenda dello scrittore e storico greco, diventato per necessità l’uomo di comando di un esercito destinato alla capitolazione . Il faro. La missione degli uomini del sommergibile Cappellini è di quelle che molto probabilmente non prevedono il ritorno ma è grazie a Todaro che l’intero equipaggio si trasforma in un corpo unico in grado di sacrificarsi e di seguire il proprio comandante, deciso ma umano, duro ma equo. La scelta di combattere una guerra ma non gli uomini diventa conseguenza naturale di un modo nobile di affrontare la vita. Rischiandola per una giusta causa. Ma il film non è solo questo.
Come in una favola l’acqua matrigna e madre
La capacità di De Angelis risiede nell’offrire spunti che vanno oltre la cronaca del racconto. Riesce infatti a creare spettacolo, quindi tensione, divertimento, riflessione, usando allegorie legate all’elemento liquido. L’incipit del film, che poi rivedremo verso la fine, è una soggettiva di un corpo che s’inabissa. È di Todaro. Un comandante diviso tra le problematiche di terra e di mare che trova la propria dimensione ideale nell’acqua. La profondità dell’abisso come protezione, come stato permanente di introspezione. Emergere, dice un marinaio, fa respirare brutta aria. Persino i sacrifici individuali diventano, sott’acqua, atti che si legano al mito. Il periscopio del sommergibile è un Palomar in emersione che punta l’indefinito dell’orizzonte, ben oltre le navi nemiche. Una meta, un motivo, una spiegazione. C’è quindi una correlazione quasi spontanea che si crea tra Comandante di Edoardo De Angelis e l’Io Capitano di Matteo Garrone–Io Capitano: l’inferno sotto forma di favola raccontato da un evoluto Matteo Garrone-perché entrambi i film sono soprattutto favole, metafore. Là il processo doloroso che porta dall’adolescenza alla maturità, qui l’inabissarsi nel proprio inconscio per prendere coscienza di sé stessi e delle naturali decisioni che devono essere prese.
Perfrancesco Favino da vero fuoriclasse
In un film bello come Comandante, Pierfrancesco Favino << naviga >> come meglio non potrebbe. L’attore italiano recita in dialetto chioggiotto, danza su vari registri con leggerezza non perdendo mai la statura dell’ufficiale che deve interpretare. È dubbioso, quasi fragile, nei momenti di intimità con la moglie o con il suo vice; autoritario con uno spiccato senso del rispetto con e nei confronti dei propri uomini e dei nemici. Il suo Todaro è un misto di tormento, di punti interrogativi da sciogliere in nome dell’equità morale. Assieme a lui il cast messo in piedi recita in modo corale senza sbavature. Massimiliano Rossi, riferimento dei precedenti film di De Angelis ma capace di prestare la propria qualità anche in piccolissime produzioni-Da Bellocchio a Ceriello due modi di raccontare le mafie-è con Favino il mattatore. Il suo Marcon-pure l’attore napoletano recita in dialetto veneto-è maschera tragica e riflessiva, alter ego del suo amico Todaro e merita ben più di una citazione perché è un grande attore. E non va dimenticata l’intensità di Silvia D’Amico nelle brevi sequenze di cui è protagonista e l’apparizione del già citato Paolo Bonacelli. Fugace si ma che lascia il segno in un film promosso su tutti i fronti. La fotografia del catalano Ferran Paredes Rubio fa il resto. È un continuo cambiamento di intensità di colore, di dissolvenze, di sfumature. A volte, soprattutto nelle scene degli interni, l’accozzaglia dei corpi stretti tra loro contro le leggi della fisica è vero e proprio dipinto che spiega la fatica, la guerra, il dolore e forse la salvezza.