Fatih Akin ha trentaquattro anni. E’un turco di terza generazione formatosi in Germania che incentra i suoi film sul rapporto spesso difficile tra ciò che si è stati, ovvero turchi, ciò che si è, forse tedeschi forse turchi, e ciò che si vorrebbe essere. << La sposa turca >>, vincitore qualche anno fa di un Orso a Berlino, metteva queste problematiche al centro narrativo della trama. << Ai confini del paradiso >>, che a Cannes ha ricevuto il premio per la miglior sceneggiatura, riprende quel discorso, lo evolve pur se i personaggi sono meno estremi, meno ai margini sociali del precedente. E’un film splendido, di rara finezza per come è raccontato, per la tensione che il regista non allenta mai, nonostante i centovendidue minuti della proiezione. Per riuscire nell’intento Fatih Akin si è affidato a una trama circolare, al salto temporale, prendendo in esame tre microstorie all’interno di una struttura meno complessa di quelle di cui era maesto Altman o l’accoppiata messicana Innarritu-Arriaga.Il padre del professor Neyat paga una prostituta turca di Brema per portarsela a casa e disporne a proprio piacimento: è vedovo, ha la pensione e il figlio sistemato all’università. La prostituta, minacciata da turchi integralisti per il mestiere che svolge, accetta ma verrà uccisa dal vedovo ubriaco dopo aver instaurato un rapporto quasi tra madre e figlio con il professore. Quest’ultimo si mette in caccia della figlia della prostituta: raggiunge Istanbul e decide, non trovandola, di abbandonare la professione e di subentrare alla gestione di una libreria tedesca nella capitale ottomana. La figlia della prostituta è una terrorista di un movimento estremo, ha rubato una pistola nel corso di una manifestazione, è braccata dalla polizia turca e scappa dapprima ad Amburgo e poi a Brema alla ricerca della madre. Incontra una giovane e tra loro scoppia l’amore sotto gli occhi della madre dell’amica. I personaggi si incontrano, si separano, si reicontrano perché l’uno è il sostituto affettivo di una carenza, sia di un padre finito in galera, di una figlia, di una madre. Non ci sarà però liberazione per nessuno. Sono tutti in bilico tra la perdita del passato, l’incertezza del presente e un futuro che non riescono a decifrare e prevedere. Il finale non è scontato, lascia aperti tutti i dubbi. Da queste storie private di drammi individuali, Akin costruisce come al solito una magnifica metafora dello sradicamento, dell’ essere cittadini di una terra di nessuno che è il mondo, quello di tutti ma forse non il nostro. Come nella << Sposa turca >> anche in questa opera tutti i protagonisti vivono una provvisorietà esistenziale alla quale nemmeno l’ideologia può portare salvezza. E alla fine non ci resta che guardare il mare nell’attesa di un Godot di ritorno che forse non arriverà mai. Perché si è ai confini non nel paradiso. In sala volti soddisfatti da parte di tutti, vecchi e giovani, belli e brutti. Consci di aver visto l’unico film degno di questo nome in circolazione in queste settimane.