Dispiace dirlo ma per la seconda volta…in vita lo spettatore medio che sarei io non ha apprezzato un film del suo autore italiano preferito, Matteo Garrone. Era già accaduto con l’imperfetto Il racconto dei racconti–http://guido.sgwebitaly.it/articoli/il-racconto-dei-racconti-se-garrone-si-limita-alla-didascalia/ e si è ripetuto dopo la visione della sua versione cinematografica di Pinocchio. Troppe cose, infatti, non funzionano nei 125′ in cui Garrone affronta quello che senza ombra di dubbio è il romanzo più che fiaba dell’Italia dell’epoca di Carlo Lorenzini alias Collodi e probabilmente la lettura più universale, globale tra tutte quelle che sono state proposte dalla nostra narrativa negli ultimi due secoli. È un Garrone col freno a mano tirato il regista che ha messo in scena la storia del burattino. Come se la nota ossessione per il libro di Collodi lo abbia sopraffatto, gli abbia impedito di esprimersi liberamente, lo abbia costretto a non interpretare, a non liberare la propria fantasia, il proprio sesto senso. È come quando sei innamorato e ti senti goffo di fronte all’oggetto del desiderio, diventando un altro. Questo Pinocchio infatti non ha nulla di ciò che ha reso grande Garrone. Troppo ligio alle consegne, troppo didascalico il regista in questo film, quasi per timore di essere preso per autore superbo. È la conferma della regola non scritta del cinema che vede come migliori trasposizioni proprio quelle che continuano a tradire il testo originario, consentendo però di coglierne il nucleo centrale, il suo significato profondo. Penso al magnifico David Cronenberg di Crash, infedele al punto giusto nei confronti dell’epocale romanzo di Ballard o allo stesso Garrone quando prese tra le mani il Gomorra di Saviano. Ecco tutto ciò in Pinocchio non avviene: c’è il legno, manca l’anima.
Pinocchio è un libro complesso, adatto sì ai ragazzi ma più agli adulti. Sotto forma di romanzo di formazione pone probematiche che vanno dal sociale-la miseria del mondo contadino di allora nell’Italia unificata- per giungere a quelle legate alla lotta dell’essere umano alla ricerca della propria centralità nel mondo. Ogni capitolo è una prova che l’individuo Pinocchio deve superare prima di potersi definire bimbo, ragazzo, insomma uomo con la U maiuscola. Il burattino non è nient’altro che un’allegoria e uno strumento che Collodi usa per donare al proprio personaggio quella spensieratezza, quell’innocenza incosciente che altrimenti non avrebbero potuto svilupparsi sotto forma di narrazione credibile. Ebbene nel Pinocchio di Garrone nulla di questo è apparecchiato sulla tavola da presentare agli spettatori. C’è solo la struttura esteriore del romanzo-fiaba, una sfilacciata sequenza di avventure a cui viene sottratto qualsiasi tipo di pathos come se fosse un bignamino per ricordarci per sommi capi la trama del libro. Si salva, in parte, l’ambientazione contadina, il senso di miseria che circonda la vicenda ma non vengono colti alcuni segnali propri del romanzo, il continuo anelare per esempio ai signori della città che possono avere tavole imbandite. E anche ammesso e non concesso che l’operazione volesse essere vicina al fantasy il film fallisce miseramente sia nell’esposizione dell’antropomorfo, metafora delle tipologie umane-che è una delle basi di Pinocchio– sia nella ricostruzione dei momenti più vicini al tragico che al drammatico: ad esempio Pinocchio inghiottito da un goffo pescecane, è una magnifica allegoria della morte e della successiva resurrezione, Nel film- e riconosco una certa dose di mia personale cattiveria- il burattino sembra sia capitato in una gita fuori porta in un luogo insalubre dove incontra Geppetto. Emozione zero, commozione pure.
PARLAVO dell’antropomorfo: prima di varcare la sala ero convinto che Matteo Garrone avrebbe donato una serie di figure da tramandare alla storia del nostro cinema. Perché pochi come lui sanno usare l’animale per dargli un significato. L’incipit di Dogman per me sarebbe da mostrare alle scuole di cinema. Le sue indagini sul corpo e sul volto me lo fecero paragonare a un El Greco cinematografico http://guido.sgwebitaly.it/articoli/dogman-garrone-esalta-con-la-sua-storia-di-uomini-cani-e-lindagine-sul-volto/ ma nel suo Pinocchio tutto l’antropomorfo che circonda le varie avventure è quasi sciatto, non c’è mai un personaggio che possa essere preso a simbolo di uno stereotipo umano in grado di bucare le schermo, di offrire quel senso di mostruoso di cui in alcune parti il romanzo pulsa; non ci riesce nemmeno l’impolverata scimmia giudice, non ci riescono il gatto e la volpe di Papaleo e Ceccherini, che in ogni caso tra gli interpreti è quello forse più credibile, così come è del tutto anonima la presenza sia del grillo parlante sia della fatina. È come se al film mancasse appunto il cuore, il sentimento , per dirla con una brutta parola che fa molto cineforum l’introspezione in grado di spiegare chi è Pinocchio, perché è così, cosa fa e quale è la sua ottica nel tentativo di affrancarsi dalla leggerezza del bimbo per affrontare consapevolmente la vita.
È UN VERO PECCATO, lo scrive uno spettatore medio che mai vorrebbe criticare Matteo Garrone. Eppure credo che questa sia la sua opera peggio riuscita, di cui ben poco si salva. Roberto Benigni, la cui presenza a lungo andare viene annullata a tal punto da dimenticarsi che esiste nella storia anche un Geppetto, parte bene con la sua prima scena-toh ho pensato non sembra nemmeno Benigni- poi, per quel poco che viene ripreso, torna a recitare se stesso; non memorabile tutto il resto, se non in qualche caratterizzazione: una per tutte riguarda Paolo Graziosi, bravissimo come mastro Ciliegia per la serie che essere grande attore teatrale ha ancora qualche significato. Se in un domani mi dovessero domandare cosa ricorderò di questo Pinocchio non avrò dubbi nel rispondere che la sua parte migliore è quella del teatro dei burattini e non solo perché Gigi Proietti interpreta Mangiafuoco. Là, sul palco e poi fuori, attorno al montone da arrostire, ho ritrovato il vero Matteo Garrone, perché quei burattini, quelle maschere imprigionate e i loro volti quasi devastati mi hanno ricordato Freaks di Tod Browning, ovvero uno dei film della mia vita, un caposaldo, un punto di partenza-arrivo. Nessuno, ripeto, ha in Italia la capacità di Garrone nel cogliere certe sfumature. Ma è stato un lampo, una speranza. Poi il film ha proseguito nel proprio tran-tran. Troppo poco per promuoverlo.