Corpi fisici e celesti nelle terre di mezzo

images-5.jpegE’INTERESSANTE notare come la religione e soprattutto la sua estetica possano influenzare alcune tra le più promettenti registe europee. Nel 2009 fu l’austriaca Jessica Hausner a donarci con Lourdes una delle opere migliori dell’anno. Oggi è la volta di un’italiana,Alice Rohrwacher, a proporre un film molto originale che ha ricevuto un’ ottima critica alla recente Quinzaine des realiseat<<Corpo Celeste>>, nelle sale da questa settimana, è un esordio da sottolineare. Forse non così trionfale come qualcuno ha detto o scritto ma di certo parecchio promettente, per nulla banale, con tocchi d’autore che fanno ben sperare. Il primo centro di Rohrwacher è nella scelta del soggetto, ispirato al titolo della raccolta di scritti di Anna Maria Ortese- guarda caso un’irregolare della letteratura italiana-, edito da Adelphi : una storia non semplice, ma che la giovane regista, sorella dell’ormai più che nota Alba, ha afferrato quasi come una sfida, facendo di tutto per vincerla. Il secondo sta nella tecnica di ripresa, precisa, veloce, curata nei colori, cangiante e  in grado di passare dal realismo quasi documentaristico alla fiction vera e propria. Il terzo nella capacità di sfruttare appieno le potenzialità di un insieme di attori dilettanti che recitano benissimo, coadiuvati in questo da uno sparuto gruppo di professionisti tra i quali spiccano la sempre più convincente e affascinante Anita Caprioli e Salvatatore Cantalupo, noto ai più non solo per le sue importanti attività teatrali quanto per aver interpretato il sarto in Gomorra di Matteo Garrone. Al centro della storia c’è Marta, un’adolescente cresciuta in Svizzera e rientrata con la madre e la sorella a Reggio Calabria. La camera di Rohrwacher si fissa dunque sullo sguardo innocente e curioso della ragazzina che parla poco e cerca di scoprire un mondo che non conosce. E’curiosa Marta e anche aliena in una realtà sociale per lei del tutto nuova. Da un lato capisce subito che la religione, o meglio la sua forma esteriore, rappresentano un collante importante per la città nella quale è stata catapultata. Mentre la madre lavora ad orari impossibili in un forno e la sorella diciottenne ha quasi una funzione paterna, Marta vive anche il momento importante di quella fase di passaggio che dall’innocenza la porterà alla maturità, che da bambina la sta proiettando verso una condizione, anche fisica, altra. E’su questi due piani sovrapposti e allo stesso tempo paralleli che <<Corpo Celeste>> si sviluppa. NON E’UN CASO che il titolo del film richiami il contenitore dell’anima: perché nella Reggio del terzo millennio si parla di un corpo <<figurato>> di un Cristo in croce che dovrebbe accompagnare i giovani alla cerimonia della Cresima e allo stesso tempo del corpo di Marta che lo osserva di fronte allo specchio, che ne nota il cambiamento con curiosità e preoccupazione, che lo vede ancora infantile ma già fatalmente pronto alle prime mestruazioni. Potrebbe essere una doppia scoperta che procede appunto in parallelo. Ma nella realtà il corpo celeste che ci mostra Rohrwacher è la disperata ricerca da parte della Chiesa di coinvolgere le giovani generazioni, parlando con un linguaggio nuovo nel tentativo di equiparare nella forma la religione a qualsiasi show televisivo di bassa levatura. Ecco quindi che le lezioni di catechismo preparatorie alla cresima si trasformano in lunghissime prove di assurde canzonette e balletti – << mi sintonizzo con Dio >> -, che il mistero delle fede viene spiegato quasi fosse una soap opera da una perpetua non troppo segretamente innamorata del parroco della chiesa di quartiere. Marta analizza tutto questo stupita e per nulla convinta: si pone delle domande silenziose alle quali non vengono date risposte. Guarda i suoi compagni sghignazzare, si sente attrice non protagonista di un teatrino dell’assurdo nel quale è stata catapultata per caso e dove non avverte proprio nulla di religioso. Gli occhi cerulei e vivaci della ragazzina si fissano su un mondo che sembra non comprendere né le reali esigenze degli adolescenti né tantomeno usare un linguaggio appropriato per spiegare gli innumerevoli misteri che ruotano attorno alla fede. Tutto è così banale, di superficie nella parrocchia frequentata da Marta e dai suoi amici acquisiti. Persino il parroco appare più interessato a intascare gli affitti, a raccogliere i nominativi delle famiglie per appoggiare la lista elettorale di un candidato amico che ad altro.  Nessuno sembra in grado di rispondere ai suoi punti interrogativi, nessuno è capace di tradurle una frase <<misteriosa>> in una lingua antica detta da Cristo. E’per questo che Marta appare come un corpo estraneo al << celestiale >> imposto secondo i rituali calabresi degli Anni 2000. La sua vita però è un fiume nella piena della sensibilità umana: si sconvolge nel vedere dei gattini appena nati uccisi da un aiutante della parrocchia; osserva dal suo palazzo la vita di altri ragazzi che portano via carcasse abbandonate, cerca sempre di andare alla scoperta di un mondo, anche fisico, che non le viene mostrato. E’ un esploratore che punta ai confini e che scoprirà, definitivamente, seguendo il parroco in una giornata di ordinaria assurdità, arrivando in un paese deserto dove avverrà l’incontro più importante, più formativo con un altro prete, allegoricamente abbandonato a sé stesso che sarà in grado con poche parole di spiegarle Cristo, i suoi tormenti e la carica umana come nessun altro era riuscito in precedenza. E’il momento basilare di Corpo Celeste, quello più riuscito anche se brevissimo, la chiave di volta che consentirà a Marta di trovare la consapevolezza di sé stessa, anche con il proprio corpo, e di incamminarsi per la propria strada.A TRATTI SPASSOSO e divertente, comunque sempre molto misurato e riflessivo, Corpo Celeste vive soprattutto di una camera a spalla che segue il volto della protagonista per evidenziarne il candore ma non la superficialità, l’ansia di conoscenza, il distacco dalle contraddizione di una terra presa a metafora di una certa Italia, qui rappresentata dal Sud più profondo per ovvie ragioni di utilità scenica e esemplificativa ma più universale di quanto si possa pensare. Una terra di mezzo, sospesa come il corpo di Marta stessa ancora bimba e presto donna. Il bello del film è che non c’è  tesi preconcetta da parte di Alice Rohrwacher che gira immedesimandosi in Marta, quasi fosse anche lei alla scoperta di un mondo nuovo. Yle Vianello, debuttante, asseconda la propria regista creando Marta e i suoi punti interrogativi, confermando che i ragazzini hanno potenzialità espressive a volte superiori a quelle dei professionisti. E’un’altra qualità di un buon esordio che non cerca mai di fare l’occhiolino allo spettatore. Certo al film manca la scossa capace di emozionare e di coinvolgere in toto. Come se Rohrwacher abbia preferito frenarsi per non cadere nella denuncia a tesi  o nel timore di perdere il contatto con la realtà. Quasi un’autoimposizione. Ma la qualità è elevata sia sul fronte del puro documento- Reggio Calabria come simbolo di una terra a metà tra una modernità forzata e l’arcaico- sia su quello della scrittura scenica, dove sono bandite le lungaggini o le inutili parole. Penso che di questa ventinovenne, sorella d’arte, sentiremo ancora parlare.

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