Tremano le fondamenta; si aprono crepe nei muri. La gente del palazzo fugge verso un domani che irrimediabilmente non sarà uguale al passato. È il primo segnale, potente e forte, che Asghar Farhadi lancia agli spettatori del suo The Salesman, in italiano Il Cliente, per specificare subito e senza indugi che ciò a cui si assisterà sarà connesso al cambiamento, a qualcosa che sconvolgerà le esistenze. Da un luogo fisico i suoi due protagonisti, giovani, belli, colti, moderni, lui insegnante ed entrambi attori teatrali, verranno proiettati in un altro, dove dovranno scendere a patti con il lato nascosto e non conosciuto della loro personalità. C’è tutto il cinema dell’autore iraniano in questo suo splendido film che è tornato da Cannes con il contentino della Palma d’Oro per la migliore interpretazione maschile al bravissimo Shahab Hosseini e della Palma per la sceneggiatura ma senza il riconoscimento più importante, dato non si sa come e su quali basi al poco riuscito e grossolano Io, Daniel Blake di Ken Loach. Perché Il Cliente è un film che intriga secondo dopo secondo, che cresce in tensione, dove gli elementi drammatici vengono aggiunti scena dopo scena, colloquio dopo colloquio, per trasformarsi presto in un grandissimo racconto morale, un thriller etico senza alcuna forma di violenza fisica, dove gli individui vengono messi al cospetto con il disfacimento dei propri principi, del proprio credo per ritrovarsi alla fine estranei gli uni agli altri e anche a se stessi. È un formidabile gioco di indagine psicologica quello che ci dona Farhadi. Una spoliazione continua, progressiva. I suoi protagonisti vengono presentati, seguiti e attimo dopo attimo ecco che appaiono come non sapevano di essere. Si crea così una dimensione interiore di totale struggimento, di sorprendenti contraddizioni e scambi delle parti.
NON È UN CASO che l’azione del film venga scandita tra i fatti che accadono alla coppia di sposini e la loro recitazione in Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller. Su questi due piani esistenziali Il Cliente fa comprendere quanto forte sia la commistione tra la recita e la vita, come finzione e realtà, eterno dualismo sempre presente nei film di Farhadi, spesso finiscano per intrecciarsi o per andare nelle direzioni opposte: si recita nel quotidiano per dire le grandi verità nelle recite, come avviene anche qui. Ma c’è tanto altro ne Il Cliente. Tutto ha un senso che sa di allegoria, un modo come un altro per addentrarsi ancora di più nel difficile e quasi sconosciuto per noi europei mondo iraniano, stretto dai rigidi codici di una morale imposta per via teocratica ma pulsante di modernità, di cultura, di visione programmatica della vita. Forse è per questo suo essere profondamente iraniano che Asghar Farhadi ci risulta così accessibile nel linguaggio di narratore per immagini, così chiaro e tutto sommato semplice nell’ ispezionare il senso profondo dell’individuo. È un regista che costruisce l’immagine di un personaggio e poi la lacera, la modifica. Spoglia, appunto, i suoi protagonisti che all’improvviso diventano altri rispetto a come li aveva presentati.
NE IL CLIENTE la coppia di sposi, Emad e Rana, trova una casa nuova, provvisoria, offertagli da un loro collega attore. Un appartamento che ha un passato, dove l’ultima inquilina non ha ancora sbaraccato le proprie cose né lo farà. Una sera, sbagliando persona, qualcuno varcherà la porta e creerà un trauma fisico e soprattutto psicologico a Rana. Lasciando indizi, soldi, chiavi di una misteriosa automobile. Per il marito lo scoprire cosa è accaduto realmente quella sera in cui era assente, chi è stato e quali sono state le motivazioni del gesto diventerà un imperativo categorico. Un’ossessione che andrà a contrastare la diversa ottica della moglie, incline non tanto al perdono quanto al cercare in tutti i modi di dimenticare e di superare il fatto. Un contrasto che li renderà se non estranei l’uno all’altra almeno molto diversi da come si conoscevano. Su sponde opposte. E attorno a loro cambierà la visuale del mondo in cui credevano di vivere.Morali contro.
FARHADI sfrutta l’ossessione del proprio eroe normale, il già citato e bravissimo Hosseini,cospargendo di segni appena percettibili l’intero territorio del film. È un’escalation che parte da un passaggio in uno dei tipici taxi collettivi di Teheran, dove una donna cambia posto dopo avere velatamente insinuato un tentativo di abbordaggio da parte del protagonista, alle foto private di un telefonino che non dovrebbero essere viste da estranei per arrivare alla morale di chi, sapendo che una cena è stata pagata con soldi provenienti da colui che era penetrato in casa, costringe a non mangiare quel cibo. C’è nel personaggio di Hosseini un cambiamento radicale di prospettiva: da professore illuminato, moderno, all’avanguardia, ecco che lo ritroviamo rigido e fermo nelle proprie posizioni, in preda più alla legge naturale, al senso della vendetta, della punizione, dell’espiazione da impartire per rimettere le cose a posto che alla ricerca di cancellazione del torto subìto dalla moglie. Di fronte a se stesso è come se avesse uno specchio nel quale si riflette una persona altra, il lato meno conosciuto del suo ego. E più percorre questo cammino più Emad si allontana da Rana e persino da coloro con i quali recita a teatro Morte di un commesso viaggiatore. Il palcoscenico diventa il luogo deputato dove trasferire la rabbia, fare i conti con le responsabilità indirette, le accuse e le giustificazioni. Il continuo transfert tra scena e quotidiano invece che limare e ricomporre, divide. La disgregazione morale diventerà totale quando l’autore della violenza verrà scoperto. Anche lui personaggio doppio, corroso dai sensi di colpa, dalla debolezza del proprio essere uomo. È un’umanità che come nel dramma di Miller vive sospesa tra un passato forse solo immaginato e una condizione di attualità fatta di provvisorietà, di ricerca artificiosa di felicità e di contemporanea giustificazione etica dei fatti di cui si rende protagonista.
LA DOMANDA che sembra porci Farhadi è fin dove può spingersi la morale e fino a che punto la rigida appplicazione dei suoi principi determina lo scambio dei ruoli. Se alla fine colpevoli e innocenti sono figure coincidenti, vasi comunicanti. Nel passeggiare su questi labili confini l’autore iraniano ci regala un film importante, costruito con la sapienza di un narratore di razza , chirurgico nella costruzione, crudele nella disamina dell’individuo, osservatore privilegiato e discreto di un paese che è in piena fase di trasformazione e che dà l’impressione di avere una visione critica della propria forza e delle proprie debolezze. Accostabile nella tematica a Una Separazione e al Il Passato e non molto distante da un altro film iraniano imperdibile, Melbourne di Nima Javidi, Il Cliente conferma se mai ce ne fosse bisogno l’importanza di Farhadi nel panorama del cinema mondiale. Gli interpreti sono all’altezza del regista: Hosseini, già in About Elly e in Una Separazione ha misura, penetrazione, capacità di variare registro. Meritato il premio come miglior attore in terra di Francia. Taraneh Alidoosti, Rana, è la sua degna partner. Possiede una grazia tutta sua, mai un birignao, una forzatura,e costruisce la figura di chi ha subìto l’offesa muovendosi a piccoli passi, proprio come il regista,verso un ruolo centrale del film. Il resto del cast, a partire dal notissimo, anche in Italia dove vive, Babak Karimi si confronta alla perfezione con i due protagonisti. Ci poteva essere la tentazione di sovraccaricare le interpretazioni. Nessuno lo fa. D’altronde lo spiega il magnifico finale de Il Cliente: rimettersi una maschera per salvare quella recita che si chiama vita.