Lafosse, l’arte di sussurrare cosa resta di un amore

IL CINEMA di Joaquim Lafosse è intelligente, profondo, controllato. Il suo tratto distintivo risiede nella capacità dell’ancora giovane autore belga di scavare all’interno della normalità e di farne risaltare incongruenze, drammi. Non è un cinema popolato da eroi ma da un’umanità quanto più possibile spogliata dei propri abiti e ripresa nel momento dell’autenticità, il che ne mette in mostra spesso e volentieri i lati peggiori. Era accaduto nel film che lo aveva rivelato qualche anno fa, Proprietà Privata del 2006 , cosìccome nel successivo Lezioni Private del 2008 ed accade anche in questa sua ultima opera, L’economia di Coppia tradotto in italiano in Dopo l’Amore, presentata nel 2016 al festival di Cannes alla Quinzaine des Réalisateurs. Questa volta Lafosse, assieme agli sceneggiatori Fanny Burdino e Mazarine Pingeot affronta una delle storie più usuali e semplici, parlandoci di una coppia che sta per separarsi. Un tema non nuovo, quasi una base stereotipata di tutta la narrativa, sia essa scritta o recitata, ma che Lafosse affronta seguendo le coordinate della propria visuale, eliminando già in partenza qualsiasi forzatura spettacolare o tragica, girando il tutto all’interno dell’appartamento in cui vive questa coppia con le proprie gemelle.

È LA NORMALITA ciò che Lafosse mette in scena. Niente di più, niente di meno. Ed è per questo che il suo film ha un respiro speciale, fatto di tensione che sembra sempre pronta ad innalzarsi, a sfociare in chissà cosa e che invece resta ben incastrata nei binari di fatti, azioni, parole delle quali chiunque abbia frequentato coppie in crisi è già a conoscenza. È il limite del film? No è il suo pregio perché l’intuito dell’autore belga lo indirizza nel non voler prendere parte a ciò che accade all’interno di quelle quattro mura, a rinunciare all’evento choccante e alla costruzione tragica della storia. Così la sceneggiatura diventa un congegno che sfiora la perfezione a tal punto che allo spettatore non sembra di assistere a un cinema da camera, a una recita o a un artificio. Chi osserva viene calato con grazia su una poltrona e guarda, come la macchina da presa appunto, quello che accade tra Boris e Marie. Una coppia in crisi spiata nei mesi precedenti alla definitiva divisione. Entrambi i personaggi sono imbottigliati in una situazione anacronistica perchè alla fine-e da questo deriva il titolo originale del film- sono sempre i rapporti con il denaro a determinare la riuscita o meno di una separazione. Boris ha poco lavoro e vive come ospite della moglie all’interno della casa non accettando l’accordo economico offertogli da Marie che si sente proprietaria di quelle mura e che spesso si è adoperata nel sanare i debiti contratti dal marito. Accanto ai due le gemelle subiscono la situazione e a loro modo cercano di creare un colloquio che ormai non esiste più se non sotto forma di lite. Per andarsene Boris vorrebbe la metà del valore dell’appartamento, Marie invece non si muove dalla sua offerta di un terzo con la convinzione assoluta che ormai la separazione sia l’unica scelta possibile. Così assistiamo alle piccole ripicche, ai ricatti morali, alle esplosioni di ira, alle contraddizioni, ai dubbi nei quali si dibattono i due. Perché, trattandosi di reale e non di finzione, la coppia vive il proprio stato tra certezze che si sgretolano, interrogativi che giungono all’improvviso, riflessioni intime mai esplicitate ma intuibili grazie all’insistenza con cui Lafosse indaga cercando di penetrare gli sguardi pensierosi, riflessivi o perduti nel vuoto di Marie e Boris.

IL NON DETTO intuibile è l’arma autentica di questo film; è la sua forza. Per riuscirci l’autore si affida a due interpreti che si superano in bravura perché calati in toto nella parte da recitare. Ecco quindi che la deliziosa e bravissima come sempre Bérénice Bejo ci trascina nei suoi stati d’animo. La seguiamo indaffarata ai fornelli, nel rassettare le stanze, nel far valere le proprie ragioni all’ormai ex marito, e nell’offrirci il proprio privato silenzioso. La si ritrova fragile quando ormai è buio e i suoni sono assenti da una stanza. Coricata sul letto, a riflettere, meditare. Indugia parecchio Lafosse nel coglierne ogni sua sfumatura. Lo stesso fa con Boris, Cédric Kahn, che vive un malcelato complesso di inferiorità sociale con la moglie ma che ha ben presente il fallimento individuale della propria vita ed alterna superficialità a improvvisi risvegli e prese di coscienza. L’importanza della loro presenza in scena risiede proprio nell’assenza di ostentazione: ovvero la finzione del recitato qui è al servizio esclusivamente della tecnica attoriale. L’interpretazione dei loro personaggi sullo schermo è di assoluta spontaneità e bisogna ammettere che senza la prova di Bejo e Kahn difficilmente Dopo l’Amore avrebbe avuto identico impatto, segno che Joachim Lafosse ha scelto e diretto bene chi doveva trasmettere al pubblico ciò che desiderava. Ci è riuscito anche con le gemelline Jade e Margaux Soentjens la cui presenza non è mai fine a se stessa o come semplice corollario alla storia dei genitori. Perspicace, per esempio, è il posizionamento delle ottiche per non perdere nemmeno un istante delle loro espressioni che fanno il paio con quelle dei genitori e che mostrano come i bambini riescano a comprendere prima il corso degli eventi.

DOPO L’AMORE è un film sussurrato, ben scritto. Lafosse rende interessante l’ovvietà di una separazione, la normalità dei comportamenti e in definitiva la solita storia di coppie che scoppiano. Lasciando perdere le indagini sulle responsabilità, su chi sia migliore tra l’una e l’altro, tenendosi lontano dalle facili commozioni. È l’umiltà con cui affronta il problema di una separazione a rendere il film molto gradevole quasi dicendoci che non è necessario fare voli pindarici per raccontarci la vita. Basta mostrarla. Nella sua tragica banalità.

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