Un grande film in tutti i sensi
Che Brady Corbet possedesse le stigmate da autore di vaglia lo si era già compreso dalla sua opera di debutto, L’Infanzia di un Capo, di cui avevamo trattato con entusiasmo su questo blog all’epoca dell’uscita italiana, https://guidoschittone.com/ipnotico-e-fascinosocon-linfanzia-di-un-capo-e-nato-forse-un-grande-regista/. Anche nel successivo Vox Lux, (una brevissima nota si trova nella sezione dei film in breve https://guidoschittone.com/ftm-film-fuori-tempo-massimo/) l’ex attore statunitense, (lo si ricorda per esempio nella rivisitazione di Funny Games da parte di Michael Haneke –https://guidoschittone.com/il-remake-puo-colpire-ancora/-) aveva dimostrato una visione molto personale del cinema. Film come opera dall’estetica importante e dal contenuto in cui la sottotraccia psicologica ha sempre qualcosa di inquietante, da temere. The Brutalist, da molti considerato un capolavoro, è al momento l’evoluzione estrema di questo concetto, che lo completa e non ci stupiremmo se nel prossimo futuro l’opera che ha in Adrien Brody e Guy Pearce i mattatori diventerà un punto di riferimento per altri cineasti. Perché siamo in presenza di cinema pensato in grande, alla Michael Cimino dei Cancelli del Cielo per intenderci, non solo per la lunghezza, forse eccessiva ma non pesante, di tre ore e cinquantotto minuti(intervallo di 15′ compreso).
Sembra scritto da uno dei Singer
La prima riflessione alla vista di The Brutalist e dei suoi capitoli iniziali-il film è diviso come un libro- è la decisa assonanza con la narrativa yddish dei fratelli Israel e Isaac Singer e non solo per l’esatta ricostruzione dell’esodo degli sfollati ebrei mittleuropei verso gli Usa tra la seconda guerra mondiale e i primi Anni’50. Corbet innesta questa impalcatura che potremmo definire classica in un procedimento cinematografico che vira all’opposto: da una parte quindi c’è la storia conosciuta da parte di chi ama quel genere di racconti e romanzi-il sottoscritto- e dall’altra un cinema che già dalle immagini dell’efficace prologo trasporta il proprio personaggio e gli spettatori dall’inferno ungherese sotto la dominazione russa alla visione per nulla liberatoria di una statua della Libertà newyorkese ripresa dal basso verso l’alto, storta e rovesciata. Sono le speranze, sembra suggerire il regista, che saranno ben presto tradite. Gli Usa come terra del sogno, della realizzazione ma solo nella propria patina. Lo svolgimento della trama sarà all’insegna di questo tradimento. In ciò la relazione tra la visione americana di Corbet e i racconti soprattutto di Isaac Singer non è molto dissimile, perché dietro all’effervescenza narrativa del premio Nobel del 1978 si cela sempre la difficoltà da parte degli ebrei di inserirsi e di essere accettati realmente dalla società americana. Corbet, però, va oltre questo dato, inserendo la propria riflessione sul ruolo dell’arte-in questo caso l’architettura- e dell’artista, l’architetto.
Nel ventre dell’architetto
The Brutalist è biografia di un personaggio inesistente. L’architetto brutalista Lazlo Toth è un mix di figure, archetipo di quella corrente concettuale e realizzativa. Ma è anche il simbolo di come l’artista sia costretto a relazionarsi con il narcisismo proprio e dei propri finanziatori, qui rappresentato dal milionario Van Buren. C’è quasi una sorta di vaso comunicante tra il creatore, Toth, e il mecenate, Van Buren. Ognuno ha bisogno dell’altro: l’artista per sopravvivere e concretizzare le proprie idee, il mecenate per ritagliarsi il ruolo quasi da dio pagano e spietato di colui che può tutto, concedere la creazione e distruggere il suo creatore come forma ultima di potere. È una lotta continua nel film, in cui sembra quasi che l’arte possa giungere a compimento solo grazie a questo infido processo di corruzione. Chissà forse Corbet parla di sé stesso, si immedesima nel personaggio di Toth, per le difficoltà che da autore di cinema ha incontrato per realizzare i propri film. E il finale con la frase ad effetto che precede i titoli di coda, sulla non importanza del viaggio ma della meta, certifica la libertà dell’artista nel ribellarsi alle umiliazioni, agli stupri intellettuali. Il ventre dell’architetto Toth-la citazione dello splendido film di Peter Greenaway non è casuale- è la cava di marmo di Carrara; sono le gallerie buie di quella terra apuana e la luce che poi si riflette ed illumina la lastra di calatava scelta per decorare il monumento simbolo del narcisismo del committente Van Buren.
Non tutto è perfetto ma…
Il film di Corbet non è perfetto. Non è una questione di lunghezza che, ripetiamo, non affatica lo spettatore. Piuttosto di ritmo perché soprattutto nella seconda parte qualche taglio non avrebbe guastato. L’impressione è che Corbet, pur non perdendo di vista lo scopo ultimo della sua opera, voglia inseguire troppe tracce di trama: l’incubo dei campi di concentramento, l’esodo ebraico negli Usa, la nascita dello Stato d’Israele con i giovani che partono alla volta della terra promessa tra lo scetticismo di chi preferisce restare in america-altro tema spesso presente nella narrativa di Isaac Singer-il sistema corrotto del capitalismo Usa, in cui la potenza del denaro crea schiavi, la riflessione sull’arte, la solitudine dell’artista preda della disperazione e della perseveranza nell’inseguire i propri ideali. Questo rallenta inevitabilmente l’evoluzione del racconto, a volte facendolo sfiorare, e ci può stare, il romanzo d’appendice, soprattutto quando nel film arriva dall’Ungheria la moglie del protagonista. Eppure The Brutalist è un’opera di grande coraggio e di conferma per Brady Corbet, un regista che come il suo architetto è destinato o alla gloria o al fallimento e mai alla zona grigia della mediocrità. Inutile parlare del cast: Adrien Brody è perfetto nell’interpretare Toth e Guy Pearce è eccellente nella parte di Van Buren. Convincenti anche tutti gli altri con Felicity Jones e Joe Alwyn in testa. E come avvenuto anche nei precedenti film di Corbet, musica di Daniel Blumberg, e fotografia, di Lol Crawley, fanno il resto.