La conferma di una importante cinematografia
Il Mio Giardino Persiano– nell’originale Il Mio Dolce Preferito– di Maryam Moqadam e Behtash Sanaeeha conferma ancora una volta quanta capacità di fare cinema e raccontare storie abbia il cinema iraniano. In tutte le produzioni che riescono ad arrivare in Occidente-ma l’antica Persia non è un paese fondatore della civiltà universale?- si comprende la modernità di riflessioni e discorsi, sempre all’opposto dall’immagine di chiusura che il sistema teocratico iraniano vuole trasmettere al mondo. In ogni autore c’è sempre la voglia di mettere a nudo le contraddizioni di una società che vive nel contemporaneo ma è costretta da dogmi all’apparenza medievali a una recita esteriore in cui non crede nemmeno essa. Così Il Mio Giardino Persiano nel proprio nucleo centrale non si discosta dal contenuto che gli autori più importanti della nazione hanno proposto in passato. Penso agli splendidi esempi di Asghar Farhadi, del quale questo blog si è spesso occupato. In fin dei conti ne Il Mio Giardino Persiano si ritrovano le stesse motivazioni alla base di molte delle opere di questo grande autore. In Una Separazione-E’iraniano il grande film– così come in Un Eroe-Un Eroe: magistrale esempio di scrittura cinematografica da parte dell’ immenso Farhadi– sembra che in Iran tutto sia vero fino a prova contraria. Farhadi, rispetto agli autori de Il Mio Giardino Persiano va ancora più in profondità, allargando l’ottica nei confronti di vizi e virtù degli individui, creando film molto complessi-ma piacevolissimi- che spesso sfiorano il capolavoro. Eppure la tendenza, direi universale, degli autori iraniani è proprio quella di mostrarci, come accade nell’opera prima di Nima Javidi, Melbourne, film del 2014-Non è MarÍas non è Dürematt: si chiama Javidi e Melbourne è un grande film– un popolo considerato presunto colpevole a prescindere e per questo obbligato a mentire e a modificare la realtà per riuscire a trovare brandelli di spazi individuali. Accade anche ne Il Mio Giardino Persiano.
Vivere la terza età a Teheran
Mahin è una vedova settantenne con figlia all’estero e poche frequentazioni: le sue amiche sono ipocondriache e ossessionate dalle malattie, altre si fingono ancora ragazze. Il suo rifugio è la bella casa con un giardino curato. Si sveglia non prima di mezzogiorno, esce soltanto per le compere quotidiane fino a quando vorrà forzare la propria solitudine andando in giro per quel mondo che si chiama Teheran. Là troverà un tassista, anch’egli solo con il quale trascorrere tempo assieme. Ma sarà molto breve, lo spazio appena di una notte. Il Mio Giardino Persiano ha una trama semplice, tutta giocata dall’intensa interpretazione di Lili Farhadpour e di Esmaeel Mehrabi che danno vita a un duetto ironico e delicato, ma profondo come un macigno finito in acqua. Perché gli autori del film riescono ad affrontare tematiche che dall’individuale, la solitudine nella terza età, la ricerca di una speranza, convergono nel sociale in cui gli iraniani sono inseriti. E mettono in evidenza la difficoltà di vita in un regime che offre i buoni pasto per chi è vedovo di veterani dell’esercito ma arresta se l’hijab non cela totalmente i capelli. Dice una ragazzina appena sfuggita a una pattuglia della polizia morale alla vedova: << Quando ci lasceranno in pace? Almeno lei ha vissuto prima della rivoluzione, senza l’obbligo dell’hijab>>. Così anche gli incontri devono essere vissuti dentro le quattro mura, cercando di non parlare ad alta voce, bevendo quel vino che viene vietato, mentendo agli impiccioni che potrebbero denunciarti alla polizia morale, autentico incubo di giovani e anziani. Nel privato, tutto si trasforma in leggerezza, in voglia di autentica libertà, di respiri a pieni polmoni. C’è quasi ne Il Mio Giardino Persiano una persistente nostalgia del passato, il sentirsi nell’oggi ma non riconoscere il sistema formale di vita che viene assegnato alle persone.
Come si stava bene con Al Bano e Romina
Una scena nella parte iniziale del film è molto esplicativa al riguardo. Mahin prende un taxi per recarsi in un albergo. Domanda al tassista:<< Quanto manca all’Hotel Hyatt?>>. Quello risponde <<Non manca molto, siamo appena partiti>>. E la vedova riflette:<<Quante autostrade!Prima ci mettevo due minuti per arrivare all’hotel. Quando era ancora l’Hyatt Hotel c’era poco traffico>>. Il tassista le dice:<< Ora si chiama Hotel Libertà e c’è un sacco di traffico>>. Mahin allora si domanda e parla forse con sé stessa :<<È questa la libertà? Era un hotel incredibile all’epoca. I cantanti più famosi si esibivano lì. Al Bano e Romina Power ci hanno fatto un concerto. Noi ci facevamo belle, indossavamo tacchi alti e abiti scollati, altro che questi hijab e scarpe da ginnastica!>>.
Un film che è anche un inno alla vita
Tutto il film è permeato dal senso di impotenza e di perplessità che non riescono in ogni caso ad annullare il desiderio di vita intensa.Anche se, come in ogni storia che si rispetti, la beffa del destino sarà dietro l’angolo, ne Il Mio Giardino Persiano di esistenza allo stato puro ce n’è in abbondanza ed è proprio questo a fare dell’opera di Moqadam e Sanaeeha una dolcissima metafora che riesce, nella migliore tradizione del cinema iraniano, ad andare oltre alla semplice annotazione politica. Penetra, sotto forma di commedia, nell’incubo della morte solitaria, del non avere nessuno accanto, trasformandosi in un inno beffardo alla vita. Da applausi i due attori, da applausi il film.