Elogio della lentezza
Perfect Days riporta Wim Wenders a realizzare un vero e proprio film dopo una decade trascorsa nel mondo dei documentari. L’autore tedesco lo fa tornando in quella che sembra essere la sua terra promessa: il Giappone. Con questa opera il settantottenne Wenders dimostra di avere colto in pieno l’essenza della nazione. Forse non quella contemporanea che altri autori, da Kore’eda a Kitano o all’irriverente Hirobumi Watanabe tanto per citarne tre, sono riusciti a descrivere cogliendone le infinite sfumature contradditorie. Wenders preferisce legarsi a un’iconografia più classica, all’immagine che gli occidentali hanno fissato per cercare di spiegare la terra del Sol Levante. Credo sia per questa ragione che gran parte della critica e lo stesso regista a proposito di Perfect Days hanno citato l’immenso Yasujirō Ozu. Dallo stato dell’arte dei registi nipponici Wenders-autore del documentario su Ozu Tokyo-Ga- ha di certo ereditato la semplicità narrativa di sicuro non il ritmo, di cui Ozu era maestro. Perfect Days, infatti, è un film lento, il che non è una contestazione piuttosto una considerazione che lo allontana da ciò che è stata la cinematografia di Ozu. Si basa su ripetizioni di gesti, su immagini che coprono il silenzio, sull’apertura dello sguardo allo scandire del tempo. È il Giappone di Wenders utilizzato in modo allegorico attraverso un protagonista per parlare dell’approccio a una diversa dimensione temporale, dove << adesso è adesso e un’altra volta è un’altra volta>>. Forse dell’inevitabile discesa nella terza età.
Il viaggio a Tokyo del signor Wim
Il viaggio a Tokyo-ogni riferimento al film di Ozu è puramente casuale-del signor Wim si incentra su un protagonista << scandaloso >> per gli stilemi cinematografici odierni: un addetto alla pulizia dei bagni pubblici. È attraverso il quotidiano di Hirayama-in questo caso la citazione dell’ozuniano Il Gusto del Saké è voluta– che Perfect Days snoda la sua magica profonda lentezza. Wenders segue, quasi coccola, l’eccellente Kõji Yakusho, premiato a Cannes come migliore attore protagonista, nel corso delle sue settimane. Lo mostra mentre si addormenta leggendo un libro di Faulkner, quando si sveglia, si lava, esce dalla propria misera abitazione e sorride al cielo, al nuovo giorno prima di partire con il proprio furgone e giungere sui luoghi di lavoro. I bagni pubblici da rendere lindi e perfetti sembrano lo specchio di una città, luoghi in cui i bimbi possono restare chiusi e poi liberati e dove l’andirivieni è continuo. Hirayama è l’artista quotidiano capace di riportare il tutto alla brillantezza, al senso di pulito, alla freschezza. E non potrebbe essere altrimenti perché il personaggio sorride a questa metropoli, l’abbraccia idealmente sentendosi in perfetta armonia con tutto ciò che lo circonda. Gli alberi e la natura soprattutto e nulla, nemmeno il Tokyo Sky Tree che non appare mai minaccioso, sembra poter scalfire questo status quo ideale. Il resto sono lunghi silenzi, respiri a pieni polmoni, emozioni sussurrate per un bacio affettuoso, per un saluto, per un inchino. È comprensione degli altri, è non giudizio, è aiuto. Il tutto filmato giorno dopo giorno, con cambi di prospettiva, di inquadrature, di colori e l’uso della telecamera fissa, posizionata dal basso verso l’alto alla Ozu, a indagare il mondo del proprio protagonista. Come se Wenders voglia dirci che l’essenza della vita la si può trovare solo nelle piccole cose, o almeno quelle che vengono considerate tali. Ma esiste un altro piano di lettura.
L’altra dimensione di Hirayama
Di Hirayama nulla è dato sapere se non ciò che Wenders mostra. Sogna in bianco-nero ombre deformate da cui si formano volti incontrati nel corso del giorno; legge libri, ha una biblioteca invidiabile e ascolta cassette rock Anni ’60 e ’70, Lou Reed-Perfect Days appunto-Eric Burdon and The Animals, Patti Smith, Velvet Underground, Otis Redding, Van Morrison, Rolling Stones etc. È la bolla protettiva che consente a Hirayama di scandire il presente portandosi solo ciò che di buono ha avuto il suo sconosciuto passato. Così in una tensione che sale con forte progressione nella seconda parte, il protagonista di Perfect Days sembra mutarsi nel terminale del regista con l’accettazione del tempo che si vive; il segreto per giungere alla famosa essenza non di Tokyo ma dell’esistenza.
Kõji Yakusho è fondamentale
Senza l’apporto di Kõji Yakusho-sulla sua capacità basta questo link: Il terzo omicidio in cui nulla è vero tranne l’arte di Kore’eda– il film avrebbe rischiato di perdere valenza. È l’attore giapponese, qui anche in veste di produttore, la ciliegina sulla torta di un’opera superiore alla media degli ultimi tempi ma non priva di difetti. Tutto Perfect Days è incentrato sui suoi primi piani, sulle sue azioni ripetitive eppure sempre differenti. Il suo Hirayama gioca sui particolari, sui movimenti, su impercettibili cambi di espressione, come nel finale-non proprio consolatorio– in cui riesce a passare da un’emozione a un’altra provocando brividi e vertigini agli spettatori. Strameritato il premio a Cannes. Il resto va attribuito a Wenders, autore cult fin troppo idolatrato anche quando ha realizzato film pesanti e brutti. Il maestro tedesco con Perfect Days non ha perduto il vizio di una certa lentezza- è il suo stile da sempre- però ha recuperato l’antica freschezza e una sorta di consapevole purezza che ci ha consegnato in uno dei suoi film migliori.