Viviane, spietato ritratto dell’ortodossia oltre il divorzio

C’È UN SEGRETO nella cultura ebraica che nessuno privo di quelle origini religiose riuscirà mai a scoprire: è la capacità di scrittura e di porgere alla gente fatti drammatici, spesso tragici, con una sottile ironia in grado di stemperare la tensione nei momenti opportuni ma di lasciare intatta tutta la forza del dramma stesso e della condizione dei suoi protagonisti. È così in letteratura ed è lo stesso al cinema. Viviane dei fratelli Ronit e Shlom Elkabetz ne è uno degli esempi più recenti. Siamo ancora una volta in presenza di un film dove non esistono esterni; dove tutto si svolge all’interno di un’aula di un tribunale. Da una parte troviamo Viviane, moglie e madre che vuole divorziare; dall’altra i tre rabbini che per la giurisprudenza israeliana sono gli unici a potere legiferare in materia di diritto coniugale. Come se da noi tutti i divorzi dovessero passare senza possibilità di alternativa dal tribunale ecclesiastico della sacra rota. Non esistono altri modi e Viviane è costretta a confrontarsi con questa sorta di consiglio di vecchi saggi, cercando di far valere le proprie ragioni. Solo che per lei si tratta di un’impresa in piena regola. Il marito dapprima non si presenta in aula. E poi sembra non esistano valide ragioni per riuscire ad ottenere ciò che si desidera: la donna non è infedele, non ha scheletri nell’armadio. Vuole solo porre a conclusione un percorso di vita che non le sta più bene, per appropriarsi in modo definitivo di se stessa. Ma c’è un altro problema ulteriore: il marito sostiene di amarla e non vuole concedere alcun divorzio. Ci vorranno cinque anni di continui andirivieni dal tribunale rabbinico per riuscire a ottenerlo. A carissimo prezzo. Scritto così potrebbe essere un film lungo quasi due ore di difficile digeribilità, statico e noioso. Ma a scriverlo, dirigerlo e recitarlo sono pochi ma bravissimi esponenti di quel mondo della cultura e dello spettacolo israeliano che non delude mai. Perché Viviane è un’opera drammatica ma brillante, studiata nei minimi dettagli e che scorre come le acque dei mari schiumosi di onde, quelle dove i bimbi possono tuffarsi giocando. Invade lo spettatore di amarezza ma a poco a poco, trasportandolo in un mondo anacronistico e maledettamente reale.

ED È PROPRIO una questione di scrittura a fare di Viviane uno dei film da non perdere di questa stagione invernale. Perché nelle aule di quel tribunale viene inscenato uno spietato ritratto non solo della condizione femminile ma di quei contrasti, fortissimi, che l’ebraismo ha sempre offerto. Dell’individuo obbligato per avere il proprio spazio a doversi confrontare giorno dopo giorno con l’istituzione religiosa, che si arroga ancora oggi il diritto di definire il destino sociale delle persone. Il fatto che la protagonista sia donna non è altro che un rafforzativo di questa lotta che antepone da una parte l’ansia di libertà e dall’altra il rispetto di un’ortodossia spesso incollata alla forma più che alla sostanza. Ecco quindi che la lotta di Viviane diventa un simbolo molto più forte e potente dell’episodio narrato nel film. In Viviane si confrontano ottiche diverse, ognuna con le proprie ragioni e i propri torti. C’è una donna che reclama la libertà e un marito ancorato ai classici schemi tradizionali che attraverso i propri no e una resistenza passiva si oppone. Tra i contendenti spuntano poi le sottili crudeltà inscenate dagli avvocati, le domande sottili, maliziose, spesso tutte a favore della parte maschile, dei tre rabbini. Le testimonianze di amici e conoscenti che vengono regolarmente smontate. È una guerra in piena regola quella che si svolge nell’aula. E alla fine non ci saranno né vincitori né vinti. Ci sarà un’inquadratura a seguire la camminata stanca della donna e una porta da varcare. Potrebbe essere quella della libertà conclusiva, invece no. Sarà un fantasma, una finzione che di libertà ha solo il nome ma non il contenuto. Atto di accusa e grido di dolore, Viviane è un film dove non solo si riflette. Come abbiamo accennato si ride anche, di gusto.

MERITO di un cast dove il regista Ronit Elkabetz è Viviane, donna silenziosa che osserva, parla quando è richiesto e mai a vanvera; sorride o resta sbigottita; litiga con i rabbini, cerca di convincere il consorte a concederle il divorzio; più forte dei continui rimandi, di cinque anni che segnano la sua vita. Ed è bravissimo tutto il cast che le gira attorno. I rabbini arguti, maliziosi, crudeli; gli avvocati così abili nel difendere i propri clienti e così fragili nel loro privato; il marito che non parla quasi mai ma recita con lo sguardo, imprigionato dalle proprie sovrastrutture mentali, dall’egoismo,dalla paura; e i testimoni che entrano ed escono dal tribunale regalando a chi osserva un campionario di battute e atteggiamenti che strappano applausi e sorrisi a scena aperta. E che alla fine non serviranno per addolcire il finale secco, preciso, durissimo. Che va ben al di là della lotta di una donna per ottenere un proprio diritto.

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