Silent souls, splendida ricongiunzione di anime

silent-soul.jpeg

LA CINEPRESA sembra inseguire in continuazione ciò che sta dietro a un viaggio. Volta le spalle agli attori; fin dalla prima immagine che precede il titolo di testa capiamo che <<Silent Souls>> parlerà di tempo che abbiamo consumato: l’esistenza. Un continuo guardare a ritroso. Ciò che sfugge contrapposto a ciò che troviamo di fronte: l’abbraccio caldissimo di orizzonti dove tutto appare lontano, quasi infinito. E’un film importante questo che nel 2010 ha vinto l’Osella per la migliore fotografia-di Mikhail Krichman- alla Mostra del Cinema di Venezia regalando al regista russo Aleksei Fedorchenko un premio minore in un’edizione vinta, non si sa perché, dal mediocre <<Somewhere>> di Sofia Coppola. Un film che come <<Cosmopolis>> si basa su un testo letterario, traendo però da una novella di Aist Sergeyev, un piccolo capolavoro che merita di essere visto da chi ama il cinema. E’cinema differente da quello in voga; se proprio non vogliamo scomodare Andrej Tarkovskij, possiamo comunque riferirci ad atmosfere pittoriche proprie di molti autori orientali. Panorami che incidono nella trama, senso di respiro profondo, ogni immagine dotata di un taglio studiato e mai casuale, visivamente splendido, colorato con lo sbiadito autunnale dell’onirico, la voce fuori campo ad accompagnare lo spettatore, la recitazione misurata, composta, precisa dei due protagonisti. L’anima silenziosa in realtà è un tumulto di riflessioni, prive di banalità, sull’individuo, sulla vita e sulla morte, sui massimi sistemi trattati con una semplicità sorprendente, leggera ma mai superficiale, sul passato e sulle tradizioni. Nulla appare scontato in <<Silent Souls>> il cui fascino è palpabile, basta non pretendere di porsi come terzi rispetto al film. E’uno di quei casi nei quali bisogna farsi travolgere da ciò che si vede e si ascolta, lasciarsi cullare. E’la forza della poesia che si trasforma in cinema.

AIST è figlio di un poeta molto simile a Sergej Esenin. Un poeta rurale di <<forza relativa>>. Appartiene a un’etnia ormai scomparsa, i Merya, finnici che si unirono in tempi remoti con gli slavi, andando ad occupare la regione di Kostroma, bagnata dal Volga. Aist ha acquistato alla fiera degli uccelli due esemplari di Zigolì. Li conduce in bicicletta attraversando l’umido sentiero di un bosco ed arriva nella sua misera di casa di legno, dai vetri infranti. E’la Russia che non si conosce, quella segreta mai mostrata dalle cartoline turistiche. Aist ogni tanto scrive, seguendo le indicazioni paterne. Non ha combinato molto nella vita. Non si è sposato, non ha avuto figli, vive da solo e lavora in una cartiera. E’un tipo probabilmente amabile, un tuttofare, benvoluto. E’per questo che il direttore della cartiera Miron lo convoca in ufficio e poi lo porta a bere sul tetto chiedendogli di aiutarlo. Sua moglie è morta nella notte e la sua anima va onorata seguendo quello che la tradizione Meyra insegna. Non una tumulazione o una cremazione tradizionali, bensì disperdere le sue ceneri nell’acqua, l’elemento che tutto racchiude. E’l’inizio della storia di <<Silent Souls>>. I due amici inizieranno un lungo viaggio senza ritorno che alla fine sublimerà il senso stesso di appartenenza al ciclo naturale della vita.

<<SILENT SOULS>> ovvero una favola, quindi un’allegoria, una metafora. Le relazioni tra corpo e liquido, tra natura e individuo, tra città che mutano, nuove periferie che inghiottono lasciandole disabitate antiche città, e il profondo senso di perdita  e allo stesso tempo di solide riacquisizioni dei propri valori sono alla base del film di Fedorchenko. Un’opera semplicissima eppure profonda come un postulato esistenziale, nel quale nulla avviene per caso e soprattutto nulla è filmato o detto tanto per allungare il brodo. In questo s’innesta la strepitosa forza scenica della fotografia: vediamo il corpo inerme  della defunta Tanya sprigionare nella propria composizione post mortem una carica vitale assoluta; ogni strada percorsa dai protagonisti ci porta in fiumi che sembrano mare, il liquido come base della vita, dove basta perforare la neve per abbandonare qualcosa di intimo, un morto, una macchina da scrivere, un ricordo, sapendo che tutto poi si concluderà là, in fondo, per ricongiungersi. Un’opera straziante ma mai pesante, leggera, serena nella propria visione. Che fa respirare e meditare. Che dona allo spettatore quella <<lieta tristezza>> di cui parla la voce fuori campo di Aist nel prefinale, quando il viaggio di ritorno è appena iniziato e  non porterà che a una logica, naturale, conclusione determinata dal caso. In tutto questo si inserisce la magia delle scene, non soltanto dei panorami sconfinati che sanno di respiro e di malinconia. I corpi curvilinei e floridi delle donne, il loro tendere gli arti nel momento dell’amplesso, gli sguardi che sanno di estasi, quei corpi che sono <come fiumi>> creati per lenire il dolore maschile rappresentano fotogrammi indimenticabili per il cinema di oggi che solo i russi e appunto gli orientali sanno trattare con il distacco determinato dal pudore e dalla grazia. <<Silent Souls>> è un piccolo immenso  film di un’ora e quindici minuti. In questo lasso di tempo troviamo risposte alle nostre domande, accogliamo il nostro destino. Siamo pagine già scritte immerse nei fiumi che paiono dissolversi all’orizzonte.

Condividi!