Cosmopolis, il flop di Cronenberg

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A CANNES, nell’ormai lontanissimo 1996 l’allora poco conosciuto, ai più, David Cronenberg aveva presentato il film che lo avrebbe proiettato verso la meritata fama. Con <<Crash>> il regista canadese si confrontava con uno dei capolavori di quel geniale scrittore che era James Graham Ballard, spremendone il succo fino in fondo, modificandolo per esigenze cinematografiche, ma rispettandone in toto il significato, traducendo per immagini tutta la complessità di un romanzo affascinante, scomodo, degno proseguimento creativo e quindi pratico di quella summa filosofica che è <<La mostra delle atrocità>>. Nacquero polemiche, contestazioni, stroncature- famosa quella di Tullio Kezich- in Italia si mosse persino la censura ma oggi, a distanza di sedici anni, <<Crash>> resta una pietra miliare per il cinema contemporaneo e per il suo autore( chi volesse saperne di più vada su www.guidoschittone.com/?=243). Questa volta  il regista più costante degli ultimi tempi-mai un film sbagliato e mai uno da gettare nella spazzatura- ci ha riprovato. Solo che a differenza del 1996 è andato a ripescare << Cosmopolis>> il romanzo, uscito in Italia per i tipi di Einaudi nel 2003,  di un altro mostro sacro della narrativa: Don DeLillo. Un libro di 180 pagine nel quale lo scrittore statunitense segue il personaggio del giovane milionario Eric Packer, guru della finanza, accompagnandolo nelle ventiquattro ore che porranno termine alla sua esistenza. Un romanzo visionario, ambientato all’epoca in una New York futuribile ma non troppo, una riflessione sul contemporaneo, un allegoria del mondo all’indomani del crollo delle Twin Towers e del dominio della finanza sulla nostra vita. Un’occasione sprecata da DeLillo al quale la tradizionale scrittura algida e una certa monotonia di trama non consentirono di ripetere la strepitosa prova del suo libro migliore, Underworld. Non so cosa abbia spinto David Cronenberg ad accettare la sfida di traslare il romanzo per il cinema e soprattutto di tentare di migliorarlo. Forse la visionarietà di partenza, l’ambientazione, il discorso attualissimo sulla relazione tra finanza, collettività e singolo. Poteva starci, nessuno meglio del regista canadese sarebbe in grado di trasformare un ranocchio di classe in un principe azzurro. Eppure l’operazione, presentata proprio oggi al festival di Cannes, non riesce in toto. In primis perché Cronenberg schematizza troppo il romanzo, condensando quasi tutto all’interno di una limousine, eliminando una parte importante- il capitolo Le confessioni di Benno Levin- aggiungendo quindi monotonia a una base già abbastanza fragile per se stessa.

ERIC PACKER  sale sulla propria limousine insonorizzata ed inizia il proprio viaggio per regolare il taglio dei capelli. Lo fa contro il parere delle sue guardie del corpo: a New York c’è la visita presidenziale e il timore di attentati. Ogni strada, ogni percorso, sono controllati, c’è il rischio di non arrivare mai a destinazione. Nel suo viaggio interminabile eppure così breve, un giorno soltanto, la tensione salirà per l’assassinio del direttore del fondo monetario internazionale, per i funerali di un rap alla moda, per la rivolta improvvisa del popolo. Ma Packer vuole andare incontro al proprio destino. La sua limousine è un ufficio insonorizzato che lo tiene distante dai rumori del mondo. Packer non ascolta nulla di ciò che avviene all’esterno. Convoca i suoi collaboratori nell’automobile, si accerta che il livello di sicurezza sia assoluto, controlla i dati finanziari, scende soltanto quando incontra la moglie, in un taxi, in una libreria, di fronte a un teatro, con la quale mangia quasi per sublimare la mancanza di atto sessuale tra i due. Non sono solo i rumori che Packer non sente. Nella sua vita mancano anche gli odori. Nella sua vita la parola anomalia è bandita. Packer non dorme, ha fissato nell’eternità del presente la propria esistenza. Come accade in borsa. Tutto è senza soluzione di continuità. Ogni tanto fa sesso, collaboratori e amanti salgono e scendono dalla limousine e quotidianamente il milionario si presta a un check up completo. Esorcizza la morte anche così. E scopre di avere la prostata asimmetrica. Può tutto Packer:anche cercare di acquistare la cappella Rothko, farsela installare dove lavora. D’altronde, scopriamo, per giungere nel suo ufficio dispone di due ascensori: uno che irradia la musica di Satie e l’altro del rapper Brutha Fez, lo stesso del quale si stanno svolgendo i funerali per i viali della metropoli. Eppure questo ideale di perfezione vacilla: il primo avvertimento, e in questo Cronenberg è fedele al romanzo, arriva da una sua amante, dalla frase <<Il talento è più erotico quando è sprecato>> dalla quale il regista prende spunto per far precipitare la situazione. Mentre la violenza della città aumenta, lo yuan inizia a crollare e Packer non riesce né fa nulla per prevederlo . Tra una sosta, un sesso sbrigativo in un hotel e una coda stradale, tutto si sgretolerà attorno a lui e il protagonista andrà incontro al proprio fallimento globale con una improvvisa e <<ritrovata>> discesa in quella stessa umanità che pretendeva di controllare. Nel film ,come nel romanzo di DeLillo, Packer perde a poco a poco il gusto della vita più si addentra nel fallimento. Ha bisogno di emozioni, ha bisogno di ascoltare qualcosa di fisico, anche la scarica di volt di una pistola elettronica sul proprio corpo, anche il proiettile che gli trafigge la mano. Ma anche questo non basta per assicurargli la sopravvivenza. << Forse non voleva quella vita, in definitiva, ricominciare da capo senza un soldo, chiamare un taxi a un incrocio affollato pieno di junior executive gesticolanti, braccia alzate, corpi che ruotavano velocemente  per coprire ogni punto della circonferenza. Aveva qualche desiderio che non fosse postumo? Capì cosa mancava, l’istinto rapace, il senso di grande eccitazione che lo spingeva a vivere  un giorno dopo l’altro, il semplice e vorticoso bisogno di esistere>>. Sono le parole che precedono il finale di <<Cosmopolis>> romanzo. Sono le sensazioni che solo saltuariamente Cronenberg riesce a trasferire nello schermo.

IL PROBLEMA del film, infatti, sta proprio nella sua scrittura. E’qui che l’opera fa acqua. Nell’ansia di creare un percorso privo di deviazione, di racchiudere tutto all’interno della limousine, David Cronenberg è come se girasse scene a stacco. Una da attaccare all’altra e all’altra ancora con il protagonista, Robert Pattinson, padrone di casa quasi sempre, nella prima parte, inquadrato di fronte, e la sua corte che entra e esce. Questo gruppo di personaggi paga l’obolo della presenza, recita qualche frase del libro e se ne va. L’idea di avere voluto eliminare il capitolo riguardante <<Le confessioni di Benno Levin>>, ovvero colui con il quale fatalmente Packer si confronterà nel finale, è stata balzana. Perché quelle pagine, che separano la prima dalla seconda parte del libro, creano una sorte di fil rouge, di leit motiv, offrono spiegazioni che mancando nel film  arrivano improvvise incomplete e troppo tardi nella speranza, tradita, di far assistere allo spettatore la scena madre, il redde rationem tra Packer-Pattinson e Benno-Paul Giamatti . Certo stiamo parlando comunque di un film firmato e….filmato da un grande regista, forse il migliore in assoluto in circolazione. Ma questa volta Cronenberg si brucia con le proprie mani un po’come il suo protagonista principale. Non affonda sul discorso macrofinanziario, non offre introspezione agli attori di contorno, e nemmeno riesce in toto a spruzzare sulla pelle di chi osserva quella geniale intuizione sul presente continuato, sull’assenza della scansione temporale dell’umanità, con la quale invece aveva magnificamente iniziato il proprio film. Qualcuno forse darà la colpa a Robert Pattinson il quale a parer mio va molto meglio delle attese. Il suo modo di recitare è fedele a ciò che si trova nel libro e il cambio di <<passo>> espressivo avviene lentamente e sempre con un certo distacco che però è proprio di tutta l’ultima narrativa di DeLillo. Quanto a Paul Giamatti è scontato che sia bravo: ma come dice Kim-Ki-Duk le parti drammatiche sono anche le più semplici da interpretare e lui lo fa cedendo al gusto della caricatura. Quindi è imperfetto. Misurata invece la sempre deliziosa Sarah Gadon, la moglie di Packer, il cui rapporto con il marito è una delle cose meglio spiegate nel film. Sono sincero: da David Cronenberg mi sarei atteso molto di più e non mi stupirei se qualcuno catalogasse <<Cosmopolis>> come il peggior film della sua carriera.

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