L’uomo e la donna definitivi di Kim Ki-Duk

bad-guy.jpgHang gi spunta dalla folla, fissa una panchina. C’è seduta una ragazza. La cinepresa ne segue i contorni del corpo, scende alle gambe sottili, ai piedi. Un cerotto fa capolino dalla scarpa sinistra. E’la prima ferita suturata del film. L’uomo ora le siede accanto. Lei telefona al fidanzato. Poi Sunhwa va a sedersi in un’altra panchina infastidita da quella presenza estranea. Arriva il fidanzato. Hang gi se ne va. Si volta, fissa la coppia. Ritorna. Prende Sunhwa di forza e la bacia. Sembra una scena traslata da << Baci Rubati >> di Truffaut. Si apre così << Bad Guy >> di Kim-ki-Duk che con << Baci Rubati >> non ha altro con cui spartire se non il senso della battuta finale sul definitivo dell’amore di quel piccolo gioiello francese. Siamo nel 2001, alla conclusione del primo ciclo di film del regista coreano, allo spartiacque tra un prima e il dopo, e Kim Ki-Duk alza il tiro, tocca la propria apoteosi visiva, la spinge oltre a ciò che aveva mostrato per esempio ne << L’Isola >>. L’uomo che ha baciato la ragazza è un protettore. Picchiato, ferito nel fisico e nell’orgoglio, la condurrà alla prostituzione. Non per vendetta ma per ossessione amorosa. E come nei classici, il rapporto tra carnefice e vittima passerà da un polo all’altro in un intreccio psicologico morboso dal quale nessuno dei due riuscirà a sottrarsi. Fin qui sembrerebbe una trama normale. Ma siamo nella terra mentale di un grande artista visivo, pittore prima che autore cinematografico (plateale ad esempio l’omaggio che rende al suo amato Egon Schiele). In << Bad Guy >> fluttiamo nella frammentazione per simboli e particolari, nella continua ricerca di uno spazio che sia in grado di annullare il dato temporale e proprio per questo darci l’esatta dimensione di un qualcosa che è grande, prorompente, assoluto come appunto l’amore. Spazio non più come contenitore di tempo ma riempito dalla radicalizzazione del sentimento, l’unico che Hang gi e Suhwa possono vivere.  << Bad Guy >> è un film complesso, impossibile da riassumere in poche righe, ci vorrebbe un libro intero, ci vorrebbero quelli che Giuseppe Genna definisce i critici e non i recensori da quotidiano. Fa parte di quelle opere che vanno verso lo spettatore con la prepotenza, che lo legano ad esse, lo affascinano senza respingerlo pur avendo tutto per essere respingenti. Il silenzio, la lentezza, il particolare che non deve sfuggire. E’ossessivo quanto ossessiva è la relazione tra i due protagonisti. Non se ne esce, anche perché si rivede il passato di Kim Ki-Duk confrontato al cinema che sta facendo ora, quello che lo ha reso famoso, ci sono …rimandi al suo futuro. Hang Gi spia attraverso uno specchio la lenta trasformazione di Sunhwa da vergine a prostituta. Contemporaneamente Sunhwa fissa quello specchio dalla sua stanza, gli si avvicina, va oltre il proprio sguardo disperato come se avvertisse che infrangendo il cristallo troverà il proprio destino. Entrambi forse sanno di esserci sempre stati . Il vetro è un segno ricorrente del film: Hang Gi non parla, ci convinciamo che sia muto come la prostituta de << L’ isola >>. Sfoga la propria rabbia infrangendo vetri. Sarà ferito una prima volta da una gigantesca, grottesca, assurda enorme lama di vetro conficcatagli da un balordo della sua specie nella strada dei bordelli di Seul, dove lui e i suoi due compari controllano il movimento, gestiscono le ragazze, bevono birra, ognuno con le proprie crepe interiori. Hang Gi rischierà la pena di morte. << Non puoi morire così- gli urla da un vetro della prigione Sunhwa- mi hai distrutto la vita bastardo, non puoi morire qui dentro. Vieni fuori bastardo >>. E’il momento in cui la ragazza rende plateale il proprio cambiamento. Per la prima volta il fascinoso disgusto che prova per l’uomo che l’ha costretta a prostituirsi lascia il posto alla necessità che lui viva, che le sia vicino, che le stia accanto, che le appartenga.   Nel film è già apparsa la scena << misteriosa >> dei due al mare. Lui osserva una ragazza vestita di rosso ripresa di spalle che si perde e scompare tra le onde – Marco Ferreri docet – mentre lei scava nella sabbia trovando una foto strappata. La ricomporrà come un puzzle lembo dopo lembo sullo specchio dal quale viene spiata da Hang Gi. Lasciando libero lo spazio per i volti di una coppia ripresa nello stesso punto, in quella stessa spiaggia. E’un’allegoria: sebbene ancora lo spettatore non sappia di chi siano quelle sembianze è chiaro che c’è un destino già scritto: Kim Ki-Duk ci dice che nulla possiamo contro di esso. Sono scene, queste, di un meraviglioso impatto visivo e di conseguenza emotivo. Da storia del cinema quella nella quale il mistero si svela: un accendino si riflette sullo specchio, illumina il volto di chi spia, basta una pressione sullo specchio e i due appaiono una di fronte all’altro, senza stupore, con la fiamma tremolante che li illumina nella penombra del resto, parti integranti di quel puzzle da comporre. In silenzio.  Ho scritto che il cerotto iniziale, appena intravisto, è il primo segnale di ferita di un film nel quale la lama, il pugnale, o un origamo appuntito sono gli strumenti che feriscono e fanno sgorgare il sangue. L’umanità di Kim Ki-Duk si porta appresso lacerazioni e da queste rinasce, resuscita, stoica nell’inseguire sempre lo stesso ideale, senza cambiare. L’amore tra Hang gi e Sunhwa è solo all’apparenza malato. E’la purezza della malattia, sembra di rileggere Jumbiaba di Jorge Amado. Nel gioco delle parti, nello scambio dei ruoli nella coppia, Kim Ki-Duk ci dà una visione assoluta, senza alternative, molto maschile se vogliamo: il loro amore è non consumato, va oltre l’umano, è morboso proprio nell’assenza del rapporto fisico e proprio per questo l’uno dipende dall’altra e viceversa. E’ la perfezione dell’utopia, perché qui non c’è mancanza, non si avverte l’assenza di sesso e non esiste sublimazione. << Non puoi parlare di amore >> urla quasi in falsetto Hang Gi al rivale nel momento in cui scopriamo che non è muto ma solo un uomo che ama, l’unico che può permettersi di non parlare d’amore. Ci sono due appartenenze reciproche, lo specchio non casualmente conduce donna e uomo a essere un’entità unica. Ed è rasserenante e beffardo nella scena finale osservare il camion adibito a luogo dell’amore nel quale Hang G sistema il materasso e rassetta e Sunhwa si concede ai clienti. La cinepresa lo seguirà andarsene nel mondo e come nell’incipit in cui si partiva dalla massa per arrivare ai singoli, qui il camion si perderà nel traffico con i colori che sfumeranno a poco a poco fino al nero. Resterà un piccolo punticino rosso a fianco dei titoli di coda, una micromacchia vermiglia, a ricordarci che nell’universo di Seul qualcuno ha vissuto una storia.

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