L’ingresso commovente ma non cupo di Nanni Moretti nell’età delle perdite

C’È l’età dell’innocenza, l’età della speranza. Ci sono le fasi della vita. A un certo punto attorno a noi tutto sembra crollare. Ci si guarda a ritroso; la fotografia del nostro io ci appare ingiallita. Siamo stati quelli ma non lo siamo più o almeno annusiamo un vento nuovo che ha forza differente di quello che lo precedeva. È un vento che se disegnato formerebbe una curva discendente; ognuno di noi sa dove arriverà ma fingiamo di non accorgercene. Accade quando entri in quella che definiamo l’età delle perdite, di quelle concrete, non adolescenziali. Il problema non è più il lacrimare per l’amata che è fuggita, per la perdita dell’ideale, per l’accorgersi che la vita non è quella immaginata. È quando uno di noi, della famiglia, se ne va. Quando la realtà ti si para in volto all’improvviso costringendo a fare i conti con il mondo stesso. Come se il nostro io a poco a poco si mettesse da parte, iniziasse ad avere una valenza relativa. È l’età nella quale l’autoreferenzialità va a farsi benedire, l’egocentrismo lascia spazio alla riflessione più profonda, ci si riappropria dell’essenziale lasciando perdere il superfluo. Non c’è nulla di nuovo, è anagrafe; però se un autore come Nanni Moretti mette in scena l’entrata nell’età delle perdite il colpo che lo spettatore subisce è di quelli che non si dimenticano. Perché la magia dell’ultimo film morettiano, Mia Madre, è tale da creare un’adesione totale tra chi è in sala e chi, dietro la macchina da presa, sta raccontandoci una storia intima ma drammaticamente comune a chiunque. Ed è questa la grande, portentosa, forza di un film che segna la fine di un ciclo e l’ennesimo inizio di un regista che, amato o non amato – non ho mai condiviso le sue idee politiche eppure sono morettiano fino al midollo da sempre- è riuscito a scandire gli anni di coloro i quali sono della sua generazione. La mia.

MIA MADRE è la storia più semplice che esista: c’è un’anziana professoressa di latino, Giulia Lazzarini che sta spegnendosi in ospedale. E ci sono i suoi figli. Un regista, Margherita Buy, impegnata nelle riprese di un film di quelli che si potrebbero definire sociali. C’è un figlio che all’inizio non si capisce bene cosa faccia, Nanni Moretti, che è sempre lì ad accudire la genitrice. E poi tanti personaggi che sembrano di contorno ma che in realtà sono essenziali: la famiglia << divisa >> della Buy, il grande attore che viene dagli Stati Uniti e che forse ha qualche problema nel rammentare le battute e nell’entrare nella parte, John Turturro, e ci sono i travagli di tutti quanti. Ognuno, tranne il personaggio di Moretti, ha ancora da fare i conti con se stesso. Buy sembra essere la versione più matura e attempata del << vedo gente e faccio cose >>. Forse non crede nel film che sta girando, al messaggio che vuole lasciare, alla professione che ha scelto. Vorrebbe che i suoi attori recitassero accompagnando il personaggio ma a ben rifletterci nemmeno lei sa cosa significhi. Turturro invece sembra odiare la finzione, tende a riappropriarsi della realtà che continua a citare e nella quale non riesce a entrare, perché la manipola, facendo correre il rischio, calcolato da Moretti, agli spettatori di essere capitati sulle prime in un film dove ci si interroga sul significato del cinema stesso, sull’eterno gioco se sia più reale il rappresentato o chi rappresenta. E così, a poco a poco, mentre iniziamo a essere avviluppati dai giochi di prestigio di Moretti, scopriamo che non è questo il film che siamo andati a vedere. Che tutto ciò che stiamo vivendo è pura esistenza. Sono i dubbi che << i morenti donano ai viventi >>, sono gli scollamenti brutali con la corteccia che abbiamo usato come scudo contro il mondo e la vita stessa. Moretti si spoglia e ci spoglia. Nel suo alter ego Buy distilla i travagli dell’io e delle sue certezze di cartapesta. Nei bicchieri bevuti da Turturro l’isolamento di chi non conosce il suolo sul quale cammina. Non è un caso se all’interno di questa umanità allo sbando, in totale confusione, l’unico modo per riappropriarsi del senso giungano da due opposti, la nonna morente e la nipote dove l’esperienza da una parte e l’innocenza dall’altra avvertono il nucleo essenziale della vita e della sua fine. Per tutto il film si cita il latino, non solo per il fatto che il personaggio di Lazzarini sia una professoressa di quella lingua. A più riprese il latino viene citato perché unico linguaggio in grado di costruire logica, di offrire senso compiuto a un pensiero, di andare oltre l’apparenza di una parola, di captarne il significato più profondo. Il latino in questo film è la metafora in grado di riportare ognuno alla propria, autentica, dimensione umana. Ma non per snobismo del proprio autore.

IN POCHI al cinema sanno raccontare la morte come Moretti. Credo che chi abbia visto La stanza del figlio abbia ancora quel suono sordo di bara che viene imbullonata a rimbombare dentro. Qui, però, siamo in un’altra era morettiana. La visione è meno rabbiosa, è di accettazione, disperata sia chiaro, ed è soprattutto occasione di riflettere sulla vita. Sul domani. Il segreto della bellezza di Mia madre è proprio questo: non è film cupo, non si avvolge su se stesso, non si perde in inutili quanto falsi intellettualismi. Mostra quella realtà così agognata dal personaggio di Turturro attraverso la finzione. Regalandoci la fiducia nella vita e soprattutto offrendoci l’occasione di specchiarci definitivamente in noi stessi, senza sconti e con grande naturalezza. Tutto il cast asseconda Moretti – qui defilato e non protagonista principe- in modo perfetto. Margherita Buy è il motorino attorno al quale ruota la storia: Mia Madreè una delle migliori interpretazioni della sua carriera. John Turturro fa il grande attore e si diverte a scimmiottare i tic e i vizi di chi vive con l’ossessione felliniana di Ottoemezzo. Moretti stesso è il fratello che prima di chiunque ha preso una decisione su se stesso e sulla vita. Sa come andrà a finire perché ormai il mondo delle favole non gli appartiene più. In mezzo a tutti svetta Giulia Lazzarini. Classe 1934, immensa attrice di teatro. E si ritorna al gioco delle generazioni. La mia venne colpita dalla sua interpretazione di Winnie in Happy Days di Samuel Beckett, unica incursione di Giorgio Strehler, nel teatro dell’autore irlandese. Lei, imprigionata nella sabbia, urlava la voglia di vita, dando origine a una rilettura che all’apparenza andava contro il dettato beckettiano. Non so perché Moretti l’abbia scelta, se si ricordasse di quell’interpretazione rimasta nella storia, ma so che ha fatto centro. È Lazzarini che qui è anche un po’Winnie: sa a cosa sta andando incontro ma sorride, dispensa motivi per proseguire a tutti quanti. E ci consegna la sua logica e il giusto valore che va dato ad ogni era dell’uomo. Anche a quella delle perdite.

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