La fine di un’epoca che ci rende muti

the-artist.jpegNON E’STATO per snobismo se ho visto <<The Artist>> quasi fuori tempo massimo, poco dopo lo splendido <<Hugo Cabret>> di Martin Scorsese, e pochi giorni prima della cerimonia degli Oscar relativi ai film prodotti e distribuiti nel 2011. Avvertivo che tra i due <<gioiellini>> che guarda caso lotteranno per fare incetta di statuette c’era un filo sottile e nemmeno troppo invisibile. Come se, ad insaputa sia di Scorsese sia dell’autore di <<The Artist>> Michel Hazanavicius, si fosse  verificato nella fase concettuale il fragore di un’idea comune: quella di parlare, sebbene in modo differente e con tecniche non assimilabili, di cosa è stato il cinema, di come recuperare la sua essenza stessa. Perché in definitiva sia l’uno sia l’altro trattano di un’epoca di passaggio: quella che dopo la seconda metà degli Anni’20 portò il cinema a vivere la sua prima grande rivoluzione tecnica, ovvero l’avvento del sonoro e la scomparsa, improvvisa, non prevista, non programmata e nemmeno dolce, degli eroi del muto. Scorsese lo ha fatto riprendendo la biografia romanzata sotto forma di favola di un grande autore dell’epoca, Georges Méliès, mentre Hazanavicius ha preferito focalizzarsi su un soggetto originale legato alla caduta rumorosa e devastante di un attore del muto. La genialità del primo, Scorsese,  ha quindi portato a una manifesta dichiarazione d’amore per il cinema attraverso l’uso del massimo che tecnologia dell’oggi può fornire, ovvero il tridimensionale, gettando basi concrete per una nuova fase della storia cinematografica. Hazanavicius, invece, si è spinto nella direzione opposta: ha usato la tecnologia dell’oggi per rifare da cima a fondo un film muto in tutto e per tutto,  con le musiche sempre differenti ad accompagnare le varie scene, con l’uso di stereotipi ai quali donare vita. Se << Hugo Cabret>> è un atto sentimentale, << The Artist>> è invece un film solo fintamente leggero. Perché ci parla di un fallimento, di un viale del tramonto. La sua essenza è drammatica e non capisco proprio le varie critiche che si sono focalizzate più sulla forma che sul contenuto. << The Artist>> non è un film da ridere, non è una replica aggiornata al contemporaneo dell’epoca del grandi comici e dei protagonisti della generazione del muto. Bensì è la storia di molti di questi, ridotti dall’oggi al domani sul lastrico, bloccati intellettualmente nel non voler accettare l’avvento del sonoro e il cambio di tecnica recitativa. Gente che ha visto l’esistenza sbriciolarsi all’improvviso alla soglia del 1929, guarda caso quando crollò la borsa di Wall Street e quando la Repubblica di Weimar in Germania implose spalancando le porte al nazismo, passate senza alcuna possibilità dal tutto al nulla economico e soprattutto morale. Vite e arte spezzate, non riconosciute dagli studios perché appartenenti al prima, considerate poco sfruttabili per il domani, insignificanti per il presente. Vedendo la magnifica interpretazione di Jean Dujardin nella parte del divo George Valentin non si può non rammentare il declino tragico di Harry Langdon o la discesa nell’alcolismo di Buster Keaton e come loro tanti altri che annegarono fama, ricchezza, capacità per orgoglio, come in <<The Artist>> o per non avere saputo annusare i refoli di un vento nuovo o semplicemente perché stritolati dal business che non ammette sentimentalismi e ricordi.

PER RACCONTARCI queste storie  Hazanavicius inquadra il suo <<The Artist>> proprio in quegli anni di passaggio. Lo fa assumendosi un rischio, girando un film muto. Dove il silenzio è la norma, dove tutto all’inizio è leggiadro più che leggero, soffice, sentimentale, divertente e poi, a poco a poco, sfocia in uno dei migliori<< viale del tramonto>> visti al cinema negli ultimi anni. Tutto diventa <<muto>> nella vita del grande attore George Valentin, chiaro riferimento a Rodolfo Valentino  anche se negli anni in cui l’azione si svolge l’attore era già scomparso. Silenzio laddove per gli altri c’è rumore. La sua vita si trasforma in un incubo, lo stesso che Hazanavicius ci mostra quando in sonno Valentin si accorge del suono che emettono gli oggetti e gli animali e del nulla che riesce a emettere la sua voce. Per tre quarti del film ,<<The Artist>>, analizza senza parole questo fallimento, la cappa che soffoca Valentin, che lo riduce al niente da avere e da dire e al semplice osservare un mondo che non lo riconosce e che lui non sa decifrare. Sarà l’amore del vento nuovo, di un’attrice nata comparsa nel muto e trasformata quasi casualmente in diva con il sonoro, a regalarci un sorriso finale, portando l’autore a una conclusione molto simile a quella di Scorsese in <<Hugo Cabret>>: a salvare, riabilitare la vita dell’attore sarà il cinema stesso, la sua magia, la sua capacità di  creare miracoli quando meno te l’aspetti, perché è il porto franco della mente e degli occhi dove tutto può accadere, soprattutto il bello. Perché è questo che dicono le favole ed è ciò che desiderano gli spettatori. Ma ciò non toglie che <<The Artist>> resti un film capace di farti entrare nell’incubo della decadenza, a meno che il mio parere sia quello di un inguaribile pessimista particolarmente sensibile alla tematica. Per questo è un film profondo, per nulla superficiale o da liquidare come semplice passatempo pomeridiano.

ESISTE poi un altro particolare curioso che si è verificato nella scorsa stagione cinematografica: molti autori si sono affidati alla <<favola>>. Ognuno seguendo la propria sensibilità. Scorsese e Hazanavicius focalizzandosi sugli eroi del muto, Woody Allen con <<Midnight in Paris>> proiettando il suo protagonista nella Parigi Anni’20, Aki  Kaurismaeki con <<Le Havre>> parlando del suo mondo di emarginati e risolvendo la disperazione con un finale salvifico, irreale e possibile solo al cinema. Credo che questo aggrapparsi alla forza dello schermo dove tutto il buono può accadere sia la profonda preoccupazione che ci riserva l’oggi. Siamo muti, senza parole, o arroccati a ciò che è stato. Guardando indietro i registi proclamano l’assoluta fedeltà all’arte che hanno scelto per esprimersi. Perché è questa che resta la loro intima sicurezza, è la forza che permette loro di accettare qualcosa che ancora non si riesce a comprendere ma che gli artisti avvertono, sentono sulla loro pelle. Non so quale tra <<Hugo Cabret>> e <<The Artist>> riceverà più Oscar. Il primo è un gioiello, il secondo è molto intelligente,  per gran parte delizioso,  ci parla anch’esso dell’oggi attraverso il prima, programmato per piacere, giocato moltissimo sulle performance del cast. Dujardin è uno spettacolo nello spettacolo; lo stesso dicasi per la bravissima Berenice Bejo, un’adeguata dolcissima <<anima bella>> racchiusa in un bel corpo nervoso e ,anche se in parti secondarie, è ottima la portata di John Goodman nel ruolo del produttore, di James Cromwell in quello dell’autista, mentre un cameo viene fatto da Malcom McDowell. Poi c’è il cane Uggy che ricorda tanto il jack russell della coppia William Powell-Mirna Loy nella serie <<L’uomo ombra>>. Di sicuro se di scommessa si trattava Michel Hazanavicius l’ha vinta. Con merito.

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