La Favorita: quando il film in costume è un mezzo per esaltare il grottesco dell’illusione del potere

La Favorita di Yorgos Lanthimos è assieme a Roma di Alfonso Cuarón il film migliore tra i nominati per gli Oscar in una selezione che, ad eccezione di questi due appunto, appare deprimente. È curioso che tra i candidati sia entrato un vero e proprio outsider come Lanthimos, autore fino ad oggi considerato non facile, fin troppo personale e spesso ermetico. Ma che l’autore greco possedesse la dote dell’originalità era risaputo da tempo: The Lobster è stato il film che lo ha imposto ai meno distratti. Il Sacrificio del Cervo Sacro ne aveva confermato lo spessore, pur in una complessità apparsa a volte un po’artificiosa. La Favorita è il compendio delle due opere precedenti. La più intelleggibile, quella maggiormente equilibrata e armonica, la più matura nonostante il rischio del progetto. Il << genere >> film in costume è infatti scivoloso: espone all’alea della didascalia nel migliore dei casi o del flop clamoroso quando lo si affronta seguendo il proprio credo cinematografico. Ci si aggiunga una produzione importante e un cast di qualità superiore con Emma Stone sempre più lanciata tra le migliori attrici al mondo e due << vecchie >> conoscenze dell’autore che con Lanthimos avevano già lavorato in The Lobster: Rachel Weisz e Olivia Colman. Tutti ingredienti che potevano portare o all’insuccesso radicale o alla definitiva consacrazione di un potenziale importante. Per grande fortuna dell’autore e soprattutto del cinema, La Favorita si è trasformato nel film in grado di sdoganare Lanthimos dal ruolo di regista cult per appassionati seriali a quello di autore universale.

A voler essere precisi mai come in La Favorita il sarcasmo, il gusto del grottesco, la perfidia di visione dell’autore greco vengono esaltati. Il << costume >> invece di danneggiare aiuta nella continua dissacrazione divisa per capitoli di questa storia tutta declinata al femminile, dove i maschi sono semplici comparse, non contano. Si svagano con le corse delle anatre, col tiro a bersaglio con pomodori contro il << fool >> della corte ;sono puri manichini manovrati dal gentil sesso mentre in sottofondo e in Europa incombe la guerra contro i francesi. Il film in << costume >> diventa quindi una perfetta allegoria scenica per mostrarci un mondo in decadenza, in cui i tradizionali personaggi di Lanthimos ,privi di qualsiasi morale, mettono in atto il loro gioco del potere, camminando sempre su quel filo sottile che separa la genialità del male dalla stupidità. L’arrivismo è il motore che aziona le mosse delle duellanti Stone e Weisz per ingraziarsi la regina Colman. Per la prima è una questione di riscatto sociale, per la seconda il mantenimento del proprio status di consigliera e anima nera di un regno dove la dialettica tra le fazioni dei politici è un semplice esercizio di stile e non di contenuto. L’occhio graffiante del regista ellenico è impietoso nel mettere in scena questo gioco delle parti; il terzo incomodo, la regina, sembra uno strumento nelle mani delle due donne, la nobile Sarah-Weisz e la decaduta, senza scrupoli, corrosa dall’ invidia sociale AbigailStone. Ma la realtà della corte è ben più complessa di quanto possa apparire: il potere resta sempre tra le mani della bizzosa, fintamente ingenua, egoista regnante, madre di diciassette figli mai nati o nati morti, che alleva in loro sostituzione diciassette conigli, è afflitta dalla gotta, dai pruriti lesbici e che alla fine farà valere il proprio status, annullando di fatto la scalata sociale di chi da un lato ha avuto una visione egocentrica del potere, Weisz, e di chi, Stone, per ignoranza, presunzione, mancanza di lignaggio può esserne solo travolta, una volta che le è stata concessa la sua illusione.

La Favorita è un film esteticamente bellissimo. Oscurità e luce declinano gli stati psicologici della regina; il grandangolo ruota a 360°, i primi piani inseguono le tre protagoniste, ne indagano le espressioni, deformano il volto, ne sottolineano le riflessioni, la rabbia, i dubbi in un’esplosione di magnificenza estetica in cui il ritmo quotidiano è scandito dai << brindisi di demenza >> della corte, dalla violenza psicologica e fisica, dal senso incombente non tanto di una morte fisica quanto di una morte morale quasi avvenuta. La sceneggiatura non perde un colpo, è briosa, brillante, pepata. Persino la colonna sonora appare fondamentale: sembra quasi ci sia la volontà di mostrarci un mondo non riferibile ad alcuna epoca. Sospeso, soprattutto immanente. È il passato ed è il presente. Sarà così anche il futuro. Il barocco viene alternato nelle scene più importanti con i suoni ripetitivi, meccanici delle percussioni o stridenti degli archi e dei fiati << sfiatati >>delle composizioni futuriste. Amara e divertente metafora sul potere, La Favorita, non poteva che poggiare oltre che su indiscutibili ed oggettive qualità cinematografiche sulle sue tre reginette. Olivia Colman è regina tra le regine. Un quadro vivente, capace di mille sfumature, di cambiamenti anche fisici improvvisi; Weisz è la consueta, splendida quanto crudele nobildonna assetata dalla gestione del potere; la bulimia d’arrivismo è incentrata sul personaggio di Emma Stone, qui più che mai all’altezza della propria fama, capace di travestire furbizia e invidia sociali in apparente innocenza. Le tre sono in lizza per l’Oscar. Colman per quello di migliore attrice-non assegnarglielo sarebbe un delitto- Weisz e Stone per le non protagoniste. Stando alla qualità di La Favorita, considerando anche che il suo rivale diretto per valore, Roma, ha una nomination per il miglior film straniero, non è difficile immaginare che l’opera di Lanthimos possa fare incetta di statuette. Almeno nel mondo ideale di chi in un film guarda la qualità e l’intelligenza della messa in scena.

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