Tsukamoto con il tocco in più

haze.jpgLa differenza tra l’autore e il semplice regista è che il primo ha personalità e genio: ha un’idea di partenza semplice e la trasforma – semplicemente – in qualcosa che non si dimentica, che resta. Di Shinya Tsukamoto ho scritto l’anno passato: tra i registi giapponesi, volgarmente definiti << cyberpunk >> , è il migliore, colui che mantiene un tratto forte e del tutto giapponese proiettato in una modernità molto occidentale con riferimenti << alti >>, da Lynch a Cronenberg senza con questo spersonalizzare le proprie tradizioni. << Haze >> è un brevissimo film di 49 minuti che venne presentato al festival di Locarno del 2005, dopo che una versione di 26 minuti era stata proiettata a una rassegna cinematografica coreana.<< Haze >> è l’inferno, è il muro sotto il quale un uomo e una donna si trovano. Sotto di loro l’acqua è rossa, su essa galleggiano viscere, interiora, arti decomposti. Non c’è luce, tutto è buio e i due protagonisti non sanno perché si trovano là. Hanno perduto la memoria, la consapevolezza di loro stessi, si trovano appunto in un << luogo del nulla >> che cercano di forzare. Con disperazione; mordendo sbarre d’acciaio coi denti, immergendosi in mezzo alla decomposizione, risalendo da un incubo per scovare uno spiraglio di luce. Sono sotto un appartamento nel quale ritorneranno. Tsukamoto non ci spiega il perché. Non ci dice chi e i motivi per i quali la coppia si trova là sotto; perché sia sopravvivente in mezzo a morti. Non ne ha bisogno, sono gli stessi protagonisti del film che devono rispondere a queste domande. Attraverso l’azione. Tsukamoto, come già in Tokyo Fist e in Tetsuo attore-regista, e Kaori Fuji, tornata a recitare con l’amico a dieci anni esatti di distanza, sembrano i personaggi di << Happy Days >> di Beckett: imprigionati in loro stessi, alla ricerca di un passato perduto in un inferno senza tempo, claustrofobico, soffocante. E’il buio dell’anima che ritma le poche battute del film ma è anche la disperazione vitale di chi non si arrende, costi quel che costi, allo status quo. Tsukamoto riprende per la prima volta in digitale: il risultato è un film di una strepitosa raffinatezza stilistica in cui l’oscurità domina, in cui a parlare sono gli occhi appena intravisti dell’io narrante, o l’armonico e disfatto corpo in penombra di Kaori Fuji. Si parla di fuochi d’artificio come ultima immagine registrata dalle menti, fuochi dove i fochisti restavano nascosti. Gli stessi che concluderanno il film, senza essere visti ma solo uditi, posticipati con salto temporale solo all’apparenza incomprensibile a un primo finale liberatorio. Di questo << corto >> gira una ottima versione in dvd, con il making off, le interviste al regista e all’attrice e una piccola << grande >> chicca: un corto di 16 minuti dal titolo << Futsu saizu no kaijn >>, tradotto in << La foresta di metallo >>. Cosa è ? Semplice la prova generale del primo << Tetsuo >> che Tsukamoto girò tre anni più tardi, nel 1989. Dove si capiva che quel ragazzino dal volto simpatico non sarebbe mai stato un bluff.

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