Troppa maniera in quel sentimento

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NON E’SEMPLICE commentare l’ultimo film di Abbas Kiarostami, <<Qualcuno da amare>>, né è facile rispondere alla domanda se ci è piaciuto oppure no. La risposta è complessa, non sta sicuramente nelle categoria del no e del si, piuttosto in quella zona grigia che porta a propendere per la seconda e a volte per la prima. E credo  sia anche lo stesso spirito che pervade gli spettatori di quest’opera presentata l’anno passato a Cannes e arrivata in questi giorni nelle sale italiane. Il territorio è sempre quello del film d’autore, di uno di quelli acclamati dalla critica a prescindere sia per il suo percorso umano di esule iraniano sia per le oggettive capacità di ripresa e di tocco particolare. Non c’è nulla  da imputare alla forma di <<Qualcuno da amare>>. Sarà che Kiarostami è un accanito studioso della cinematografia di Ozu e quindi non c’è da stupirsi che la storia si svolga a Tokyo, in un Giappone svelato agli occhi occidentali per quello che è, con le stesse identiche sensazioni che chi capita da quelle parti per lavoro prova sulla propria pelle. Non è una cartolina turistica, è Tokyo reale che si staglia di fronte ai noi, con i suoi taxi con i coprisedili bianchi ricamati, i ponti sopraelevati che tagliano in mille parti la città, i pedaggi dei tratti stradali, il senso di solitudine<< in compagnia>> che prende chiunque, i bar affollati di giovani, la libertà sessuale delle studentesse in una nazione che è sempre tutto e il suo contrario, la regola e il volto nemmeno troppo oscuro di ciò che sta dall’altra parte. Penso che nella sua ossessiva ricerca delle proprie radici, Kiarostami abbia scelto Tokyo per ambientare <<Qualcuno da amare>> perché gli ricorda in qualche modo Teheran e quelle sacche di libertà da non mostrare ma esistenti che sono proprie di quella metropoli.

E’CHIARO che su questo fronte l’autore faccia centro così come nel proporci una storia che sebbene possa accadere ovunque, è particolarmente adatta al Giappone, s’innesta nella sua tradizione letteraria, basti pensare a quello splendido romanzo che è <<La casa delle belle addormentate>> di Yasunari Kawabata. Anche qui c’è un anziano al centro del film e anche qui c’è quel mondo molto giapponese delle ragazze da compagnia. Ed è proprio seguendo le espressioni, i rimpianti, i dubbi, della giovane Akiko, di giorno studentessa di sociologia, di sera escort con base in un locale alla moda, che a poco a poco Kiarostami coinvolge chi osserva. L’analisi della ragazza è precisa: viene dalla provincia, lavora per mantenersi gli studi, ha un ragazzo con il quale discute in continuazione, che è geloso e che non sa i motivi dei suoi improvvisi silenzi e della line telefonica staccata. Akiko quindi ci viene presentata dal regista in preda ai propri dubbi esistenziali e morali. Ha ricevuto una telefonata da sua nonna e sa che eticamente dovrebbe raggiungerla invece che finire a casa di un misterioso cliente impostogli dal proprietario del locale. E’una ragazza in contraddizione, divisa tra ciò che fa e ciò che sono le radici. E’su questa lotta interiore che si basa buona parte del film, perché chi ha ingaggiato Akiko per una notte è un anziano professore di filosofia che altro non vuole che <<qualcuno da amare>>. Da questo incontro Kiarostami fa nascere un’autentica piéce teatrale trasportata sullo schermo. Un dramma degli equivoci nel bel mezzo di un triangolo, professore-escort-fidanzato di lei, dove nessuno riesce ad esprimere compiutamente il proprio sentimento. E’il blocco che determina la caratterizzazione dei personaggi: Akiko costringe un tassista a girare attorno alla piazza della stazione per osservare la nonna che la attende invano. Il professore prepara una zuppa ai crostacei per la ragazza in segno di benvenuto che non verrà mai mangiata. Il fidanzato di lei spera con il matrimonio di non dover più vivere nella zona d’ombra del non detto di Akiko. Inganni, bugie  si concluderanno bruscamente con una finestra rotta, in un finale molto secco, non atteso, più teatrale che cinematografico e di sicuro non dalla parte degli spettatori.

 NON TUTTO funziona in <<Qualcuno da amare>>. Il contrasto tra la saggezza degli anziani e la confusione dei giovani regge fino a un certo punto.  La figura stessa del professor Watanabe, interpretata mirabilmente da Tadashi Okuno, resta sospesa  tra la vibrante partecipazione alla vicenda dei due ragazzi e la  non troppo disinteressata generosità nei confronti di Akiko. E’una storia che si annoda su sé stessa, che tende a perdersi per strada dopo un inizio molto bello e uno svolgimento basato sulle incomprensioni, sui no sense, sul ritratto di tre solitudini che paiono trovare l’unica forza nella necessità casuale di affidarsi a qualcuno. Alla fine Ryo Kanze, uno degli enfant prodige del cinema giapponese e non solo, sarà colui che porrà lo stop al gioco. Il triangolo di Kiarostami ci propone anche tre differenti tipologie sociali: l’intellettuale rispettato, isolato nel suo appartamento pieno di libri e illuminato da una finestra che dà sul mondo; la ragazza di provincia che cerca di abbandonare le proprie umili origini; il ragazzo di città che ha operato il rifiuto dello studio a favore di un’attività manuale che possa offrirgli garanzie per il futuro. Si cerca l’amore ma soprattutto un’idea di vita che nessuno ha bene in mente. Non certo la dolce e sensuale Akiko, Rin Takanashi, né il professore che sembra cercare ciò che non può più esistere. Ed è forse giusto che a spezzare l’intreccio sia alla fine il personaggio in parvenza più umile, l’unico che sa cosa pretendere e che divide il mondo in bianco e in nero. Ma non basta per riscaldare la platea che resta freddina di fronte a un buon film, dove la maniera supera il sentimento.

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