Su quel taxi la libertà non sarà mai un fantasma

IL CINEMA iraniano è bello, vario, intelligente e profondo. Il regime può censurarlo, cercare di cancellarlo. Può imprigionare i suoi autori, impedire loro di girare film ma è una battaglia perduta. Perché in un modo o nell’altro molti dei film iraniani arrivano nelle sale di tutto il mondo, vengono presentati ai festival, ottengono premi e non perché tra i giurati faccia capolino la compassione o il desiderio di fare politica. Semplicemente perché molte delle opere che arrivano da registi di quel paese sono importanti. Appunto belle, intelligenti e profonde. Chi bazzica tra queste pagine sa come la penso: film come << Una separazione >> o << Il Passato >> di Asghar Farahdi sono tra i migliori al mondo delle ultime stagioni cinematrografiche. << Melbourne >> di Nima Javidi è stata una sorpresa del 2014. L’Iran è una nazione strana: spesso l’apparenza e la realtà non coincidono. C’è un’apparente pesantezza che è capace di trasformarsi in voglia di vivere con leggerezza. Nel contempo il rovescio della medaglia è rappresentato dalla pesantezza del controllo supremo e minaccioso nei confronti di chi cerca di esprimere il proprio pensiero. È un paese dal doppio, triplo, quadruplo volto. Dove nulla sembra essere concesso e invece molto si può e dove, ahinoi, nel momento in cui si pensa di potere giunge la mannaia, crudele, ottusa della censura. È per questo che il cinema è il mezzo perfetto per intuire e descrivere queste contraddizioni.La storia di Jafar Panahi è nota. A differenza di molti suoi connazionali l’autore ha preferito non espatriare, cercando di girare film nella propria terra. È stato censurato, condannato a sei anni di reclusione con il divieto per vent’anni di svolgere la propria professione. Al di là del caso individuale, che ha coagulato un forte movimento di opinione a favore del regista, il suo film che ha vinto l’Orso di Berlino 2015 << Taxi Teheran >> merita la visione per quelle che sono le qualità intrinseche dell’opera stessa. Non è uno di quei film da festival che devono piacere per forza perché girati quasi in clandestinità. È soprattutto un ottimo film, geniale nella propria semplicità, in grado di scavare come pochi in quella che è la realtà di una nazione che dovrebbe iniziare a comprendere e soprattutto a sentirsi onorata di poter offrire al mondo un cinema di altissimo livello, per niente provinciale, aperto. Questa sì sarebbe la propaganda migliore per mostrare cosa è l’Iran.

TAXI TEHERAN è pura fiction girata con lo stile della no fiction. Chiamiamola anche riflessione sul cinema, sul sottile confine tra il realistico e il reale. Una microcamera è posizionata all’interno di un taxi, pilotato dal regista stesso in una ordinaria giornata per le strade e i viali della capitale. Ci sembra sulle prime un documento e invece è puro cinema per la regola che se si vuole arrivare al nucleo, bisogna manipolare la realtà. Fingere che non esista soggetto né sceneggiatura. Ricreare un mondo partendo da ciò che sembra, quindi da un’ottica falsamente oggettiva. Adeguarsi, in questo caso in modo politico, a ciò che il regista vuole dire dell’Iran e della propria metropoli. Su quel taxi è un continuo andirivieni di gente.L’approccio è tipico degli autori iraniani: quasi leggero, ironico. Panahi con tocchi essenziali ci propone un uomo e una donna che discutono sulla pena di morte per futili reati. Ognuno esprime le proprie opinioni e ci sembra di essere su un taxi di un qualsiasi paese dell’Occidente o comunque dove la libertà di espressione non viene bandita. Ma poi entrano in scena gli altri clienti-personaggi ed ecco che a poco a poco Panahi ci spinge a considerare altre ottiche, a lanciarci indizi. Pur proseguendo a sorridere ci si accorge che da quell’incipit così leggero si sta entrando in un’altra dimensione. I clienti sono lo specchio del paese. Ognuno mostra il significato del vivere dove non si è totalmente liberi. Il ferito di un incidente stradale ha bisogno di un videofonino per lasciare in testamento i propri beni alla moglie. Senza questo la donna sarebbe bandita dalla società. Da nouvelle vague il personaggio del contrabbandiere di dvd dei film internazionali messi al bando dal regime e che in molti vogliono acquistare. Divieti e relativi modi per aggirare gli ostacoli:è questo che ci mostra il regista. Lui stesso vive sulla propria pelle un divieto ma ugualmente sta girando un film. Ed ecco quindi che diventano fondamentali soprattutto gli ultimi due passeggeri del taxi: l’avvocato di Ghoncheh Ghavami, la studentessa finita in prigione per avere tentato di assistere a un incontro di pallavolo e la nipotina di Panahi, Hana. Come lo zio è impegnata in un film che le ha commissionato la scuola. Dovrebbe mostrare il reale. Ma c’è un codice da rispettare;il reale è di fatto vincolato a regole assurde e lei stessa si domanda come la realtà creata dal potere non possa essere mostrata per quello che è.

TAXI TEHERAN conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno,anche molti tratti caratteristici che si trovano in gran parte del cinema iraniano contemporaneo. C’è,qui come nei film di Farhadi, – penso soprattutto a << Una separazione >>-, quella capacità degli iraniani di infilarsi nel labirinto dell’oppressione e delle regole e di ricreare in ogni caso una vita piena. È un film drammatico per la realtà che ci fa avvertire ma allo stesso tempo è un’opera pulsante, di grande fiducia; potente proprio perché dimostra quanto l’ansia di libertà alla fine riesca a permettere una vita che scorre su un binario diverso da quello che il regime vorrebbe imporre. La delicatezza è poi l’altra arma che Jafar Panahi usa per fare a fette imposizioni e presunte impossibilità. È un cinema, il suo, che arriva dritto alla méta senza bisogno di urlare o denunciare, senza scene madri o discorsi artificialmente complessi. Per mettere alla berlina un regime basta la semplicità e l’uso dell’ironia, graffiante anche nello splendido e logico finale. Potranno spegnere o strappare telecamere e cineprese; ma la libertà della mente non diventerà mai un fantasma.

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