<< Il grande Lebowsky >> meriterebbe una visione quindicinale. Da quattordici anni a questa parte rappresenta il manifesto della cinematografia dei fratelli Cohen, il completamento di quel gioco al massacro dei generi che avevano iniziato con << Blood Simple >>, proseguendolo poi con << Crocevia della morte >>, << Arizona Junior >>, << Fargo >> – ho amato molto anche il contestato << Barton Fink >> – , dove già si respiravano situazioni poi sviluppate appunto nel film con Jeff Bridges, John Goodman, Steve Buscemi e via via tanti altri, tra i quali Julian Moore, Seymour Hofmann e John Turturro. Un cinema che diverte ma che non è mai gratuito, mai facile nella battuta. Dove il noir si mescola alla commedia, la sceneggiatura scatta, si perde, ritorna, si suddivide in tante trame, sorretta da un dialogo al quale è difficile non prestare attenzione. La grandezza del film risiede nella sua sua assoluta resistenza alla corrosione del tempo, il che non è scontato in prodotti di rottura che spesso esauriscono gli effetti dopo poche visioni o dopo pochi anni. Mi sono chiesto dove, al di là della cifra tecnica, stilistica e interpretativa, << Il grande Lebowsky >> è vincente su tutta la linea. Penso nella leggerezza della narrazione, nel modo con il quale i Cohen affrontano gli incubi contemporanei e lo scoramento di una generazione sconfitta, il tema della guerra che fa capolino – si era all’indomani del primo conflitto iracheno -, il reciproco chiudersi in sé stessi impersonando la propria parte fino alle estreme conseguenze, l’accorgersi che in definitiva nella vita nulla è serio, molto è beffardo e che quindi l’unica salvezza è semplicemente accettarla, sapendo che a volte sei tu che mangi l’orso e altre è lui a mangiare te.