In un futuribile 2033 la tecnologia offrirà la possibilità di poter morire continuando, attraverso la realtà virtuale, a interagire con i viventi. È la base di partenza di UpLoad la serie televisiva lanciata da Amazon ad inizio maggio che è disponibile con le sue dieci puntate sulla piattaforma di Prime. Concepita da Greg Daniels, già sceneggiatore dei Simpsons e il re della collina, di The Office, impegnato ora anche su Netflix con Space Force interpretato dal geniale Steve Carell, è una delle produzione televisive trasversali più intelligenti degli ultimi anni. Perché allo stesso tempo è dinamica, solo la puntata introduttiva raggiunge i 46′, divertente, sentimentale, intrigante per gli intrecci noir che assicurano la suspence e soprattutto è allegoria del contemporaneo. Daniels e il suo staff infatti riescono a calare gli spettatori in un mondo che è l’esatta riproduzione di quello attuale, dove le relazioni interpersonali sono scandite dalle connessioni universali e in cui il confine tra il reale e il virtuale è una lunga linea parallela, infinita, che si incrocia all’improvviso, riproponendo nell’uno e nell’altro territorio le stesse problematiche e le stesse ingiustizie.
Horizen è il network che si occupa di organizzare l’aldilà e di creare e gestire gli avatar di chi morendo attende un’improvvisa resurrezione dettata dalla scienza; l’umanità di questi upload si ritrova quindi all’interno di un mondo artificiale in cui l’esistenza viene scandita dal potere d’acquisto. Chi più è disposto a spendere di maggiori comfort potrà godere. C’è chi si adatta e chi no. Chi prosegue a perpetrare i comportamenti avuti in vita e chi invece rifiuta psicologicamente l’essere stato inserito in un mondo palesamente falso. Il postmortem di UpLoad si trasforma in sistema coattivo di dispotismo tecnologico che non concede vie di uscita se non il relazionarsi con i propri angeli, gli impiegati che gestiscono gli avatar, e di confrontarsi con coloro i quali si frequentavano in vita. In modo, anche in questo caso, del tutto virtuale, con la riproduzione per gli uni e per gli altri dei contatti fisici. Ed è proprio da questa interazione continuata che si evolve la narrazione. I due mondi di UpLoad mostrano reciproche crepe laddove dovrebbero essere perfetti.
L’ammonimento impartito dalla serie statunitense è chiaro, nemmeno troppo celato da una trama pimpante, in cui i colpi di scena si susseguono senza soluzione di continuità: la tecnologia è un medium dispostico che serve per rendere la collettività massa acefala e impersonale. Il suo scopo risiede nel tentativo di trasformare un assieme di individui in gregge ubbidiente, spersonalizzato, privato delle esigenze e dell’etica del singolo, il che è una perfetta fotografia della deriva verso cui sta andando il nostro contemporaneo. UpLoad sotto forma di commedia leggera ci parla di tutto questo, sfruttando gli ingredienti classici del genere: l’amore come ponte tra universi paralleli, l’intuizione individuale come mezzo per sovvertire la coazione ed aggirare i controlli dei sistemi tecnologici. A mandare in crisi il sistema, forse, saranno pochi e ben caratterizzati personaggi. Fondamentale, tra quelli di contorno, un uomo prossimo alla morte che rifiuta la logica del paradiso artificiale ad ogni costo e chiede soltanto di poter seguire il proprio destino naturale, perché l’anima non è un circuito elettronico né può essere riprodotta. Discorsi non nuovi ma molto efficaci per come sono resi. Il finale, come in tutte le serie destinate ad avere un seguito produttivo, è aperto e geniale nella sua secchezza. Per me è una delle opere migliori realizzate dal colosso di Jeff Bezos negli ultimi dodici mesi ed è il motivo per cui la consiglio.