ANDANDO AVANTI così sarò costretto a fondare un club, ogni riferimento a uno dei titoli più importanti del regista cileno è puramente casuale, in onore di Pablo Larraìn. Perché anche su un versante che poteva essere scivoloso, difficile, pieno di tranelli come la biografia, l’autore sudamericano non sbaglia, anzi crea uno tra i suoi migliori film dove dispensa fascino, intelligenza, riflessione e capacità di analisi molto personali, non scimmiottando, dimostrando di possedere una cifra stilistica in continua evoluzione. Larraìn, infatti, non si ripete, cambia registro opera dopo opera. Inventa, progredisce, indica potenzialità insospettate pur restando fedele ai temi che l’hanno reso importante. Anche in Neruda, presentato alla settimana dei realizzatori a Cannes (perché mai non in concorso?) l’occhio vigile dell’autore cileno affronta la storia del suo paese. Lo aveva già fatto in tutte le opere precedenti, da Tony Manero fino a El Club; e anche qui preferisce camminare a fianco dell’individuo e non del coro eleggendo appunto la figura del poeta come strumento per spiegare la storia stessa, allargando l’orizzonte. Si parla ancora di Cile ma in realtà in Neruda si va oltre il periodo storico preso in esame e si va oltre i confini della sua nazione. La riflessione, rispetto a ciò che ci ha mostrato nel corso degli anni, è ancora più complessa. Qui entrano in gioco altre variabili: la fascinazione della parola, la relazione tra letteratura e immagine, la fascinazione dell’allegoria e della metafora, la demitizzazione dell’uomo e la contemporanea esaltazione dell’ottica dell’artista. Chi andrà al cinema attendendosi un’agiografia di Neruda è meglio che stia a casa. A Larraìn non interessano le biografie. A Larraìn piace Neruda in quanto simbolo di tutte le contraddizioni della storia e del sudamerica in particolare.
PER FARLO prende spunto dagli eventi cileni del 1948 quando il presidente Videla, votato dagli stessi comunisti e per il quale il poeta aveva svolto campagna elettorale, scatenò un’offensiva nei confronti di questi dopo che nel 1947 aveva represso con violenza uno sciopero di minatori. Neruda, che in senato aveva declamato un durissimo discorso contro il regime, fu eletto a simbolo dei contestatori e per questo venne emanato un ordine di arresto che lo costrinse dapprima alla clandestinità e poi alla fuga verso la Francia. Da questa piccola parte di storia personale di Neruda, Larraìn e il suo sceneggiatore Guillermo Calderón partono per inventarsi un altro racconto, per allontanarsi sempre di più dalla nuda e cruda cronaca. Lontano dai fatti. Dopo pochissime scene il film prende una strada tutta sua. Viene annullata qualsiasi scansione temporale, la guida del racconto è affidata alla voce fuori campo di Oscar Peluchoneau, il commissario di polizia che cerca di braccare Neruda. Un personaggio di pura invezione letteraria, l’autentico alter ego di Neruda stesso e lo specchio nel quale si riflettono le considerazioni del regista. Perché è dal rapporto di fascinazione tra i duellanti che Neruda cresce a dismisura. L’uno è creazione dell’altro; il commissario raccoglie indizi. Ma accanto ad essi i libri e le poesie che il poeta sembra lasciargli come segno della propria presenza, come motivo per continuare a essere inseguito. La figura del poliziotto acquisisce un peso sempre maggiore man mano che scorrono le scene. Da figura stereotipata da noir di serie B degli Anni’50, schematica, volgare fino a rasentare la stupidità, diventa essa stessa materia letteraria, protagonista di una narrazione forse soltanto immaginata dal poeta e preda della fascinazione che il potere della parola emana. Il commissario è allegoria di una nazione che a poco a poco prende coscienza di sé stessa, grazie appunto alla funzione dell’arte. Oscar Peluchoneau, interpretato da un magnifico Gael Garcia Benal, è funzionale alla spiegazione di Neruda non in quanto eroe immaginifico di un’epoca o di uomo quanto in virtù della forza ipnotica che la poesia ha nel processo di maturazione di un popolo.
IL FILM vira quindi verso nuovi territori inesplorati. Lo fa sulle prime con leggerezza, ironia, con l’onestà tipica di chi non vuole disegnare superuomini. Larrain fa le pulci al comunismo da salotto e di apparenza, mette con pochissimi ma evidenti tocchi a confronto l’ambiente altoborghese che si riempie la bocca e lo stomaco con chi il comunismo lo vive come scelta consapevole e missione di vita. Tratta delle disillusioni, dei dubbi. Su questi la figura di Neruda, eccezionale l’interpretazione di Luis Gnecco, aleggia e sembra quasi vivere gli stessi interrogativi ricercando più che altro l’ansia di libertà, espressa dalla ricerca del sesso, di aria fresca, di assenza di confini. Non c’è giudizio su Neruda da parte del regista. Né voglia di rileggere la sua esistenza. C’è piuttosto il desiderio di inserire un poeta, un artista all’interno della Storia, nell’indicarne la funzione. Il continuo scappare e il contemporaneo desiderio di essere braccato mostrano l’immaterialità, la non credibilità del dato storico, che in definitiva è puro gioco di inganni.
NERUDA è un’opera che sfiora la definizione di capolavoro. Bastano i trenta minuti conclusivi per farlo entrare di diritto tra i film migliori degli ultimi dieci anni. È nell’ultima parte, infatti, che sorge un Larraìn sconosciuto: visionario, profondissimo, colto. Immaginando un duello stile western puramente mentale tra le due entità che danno vita alla sua opera, esaltando la teoria del doppio, unisce poeta e poliziotto in un unico terminale, costruendo un finale dalla forza impressionante, dove l’ironia danza con lo struggimento. Calpestando la neve di montagne anch’esse immaginate, Larraìn rilegge atmosfere dei grandi maestri del western e di un autore orientale come Kitano-quegli accenni di rosso e la correlazione insistita tra gli incatenamenti del destino non sono chiari omaggi a Dolls?- ma aggiunge qualcosa che è soltanto suo: la capacità di razionalizzare all’improvviso il momento poetico, tornando imperioso a mostrare le contraddizioni dei propri antieroi. Perchè Neruda non è altro che l’ennesimo personaggio amorale della sua filmografia. È differente da Raoul Peralta,da Mario Corneo, dai peccatori di El Club in quanto poeta. È la sua visione del mondo a offrirci il senso. L’ottica del poeta, l’ottica dell’artista. Di colui che senza saperlo è in grado di creare morale, etica, libertà.