FORSE ha ragione Julian Barnes, lo scrittore inglese che con <<Il senso della fine>> ha vinto nel 2011 il <<Man Booker Prize>>, a sostenere che la storia <<E’fatta dai sopravvissuti, la maggior parte dei quali non appartiene né alla schiera dei vincitori né a quella dei vinti>>. Forse non c’entra nulla con il crepitante <<Zero dark thirty>>, l’ennesimo film azzeccato da Kathryn Bigelow, in cui si narrano modalità e aspetti psicologici della cattura e uccisione nel suo rifugio pakistano di Osama bin Laden nel corso di un blitz notturno il 9 maggio 2011. Però ho trovato delle corrispondenze con la frase tratta dal romanzo di Barnes, perché anche qui si rilegge la storia. Senza trionfalismi, con molto acume, con estremo equilibrio, lontano dalla tentazione di esaltare una nazione ma distante dal volerne mettere al centro le storture e le necessarie ingiustizie. Bigelow è quasi l’alter ego di Michael Moore. Laddove il secondo cerca di interpretare i fatti del recente passato districando tesi preconcette- intese quindi come assioma e conditio sine qua non-, la prima agisce al contrario. Documenta in modo ineccepibile i fatti senza assurgere a giudice morale né cadendo nella pretesa di dover assumere un ruolo etico, di presunta superiorità morale.
SE BIGELOW giunge a una conclusione è utilizzando la tecnica del romanziere, con l’elezione di un gruppo di personaggi che si muovono nel contesto di appartenenza. Così facendo la regista americana arriva a scavarne il ritratto psicologico mediante l’azione, dentro quindi alla storia stessa che racconta. Con onestà assoluta, mostrando lato A e lato B della medaglia. In <<Zero dark thirty>> siamo nel perfetto <<sequel>> del precedente <<The Hurt Locker>>. Al posto della guerra c’è la caccia al fantasma di bin Laden ma il personaggio di Jessica Chastain non è molto dissimile da quello del soldato americano che alla vita <<civile>> alla fine antepone il ritornare nei luoghi dove non esistono regole, dove il contenitore delle schegge impazzite e prive di apparente razionalità può dare un senso al suo essere nel mondo. Maya, l’anonima ma volitiva agente della Cia, ha il proprio scopo nel catturare il principe del terrore. Di lei, del suo privato, della sua storia precedente lo spettatore non sa e non saprà nulla. Non ci sono affetti, non c’è sesso. Possiamo solo immaginare una sua esistenza precedente e di sicuro non andremmo troppo lontano, perché si tratterebbe soltanto di supposizioni non suffragate dai fatti. Noi, dall’altra parte dello schermo, dobbiamo soltanto osservare come Maya opera all’interno del suo ambiente di lavoro, che è quello degli agenti americani alle prese con le complicazioni del terrorismo. Bigelow ci parla di un’ossessione: catturare bin Laden combattendo contro gli elementi esterni, l’inospitalità dei luoghi e i condizionamenti della burocrazia, i tentennamenti amministrativi, i preconcetti, i timori. Maya è tutto questo, una persona che non si arrende fino a quando non raggiungerà il proprio scopo. Ed è solo alla conclusione che vedremo un volo verso il chissà dove, verso il ritrovamento di un proprio io che doveva passare attraverso le vicissitudini anche interiori che la regista mette in scena.
FILM DI RARA tensione e dinamismo, <<Zero dark thirty>> si basa su documenti reali, su una ricerca minuziosa, sulla cronaca nuda e cruda mai romanzata ma solo trasportata sullo schermo mediante il cinema. E’uno spettacolo con la esse maiuscola che Kathryn Bigelow ci offre fin dall’inizio, con le straziante registrazioni originali delle voci di chi dell’11 settembre fu protagonista inconsapevole e vittima, coloro i quali si trovavano sui voli dirottati o all’interno delle Torri Gemelle. E poi ci trasporta nei luoghi segreti e dispersi delle torture, della detenzione ai limiti dell’umana sopportazione dei prigionieri. Sarebbe stato molto facile per chi ha delle infrastrutture culturali prendere un’altra strada, riflettendo sull’utilità della barbarie e fornirci mettiamo la solita versione <<personalizzata>> dell’ingiustizia della guerra e della lotta. Bigelow non casca nel tranello. Sono i fatti, è l’azione che interessa l’ex compagna di vita di James Cameron. In questo possiamo notare un certo parallelismo con l’ottimo <<Argo>> di Ben Affleck: in entrambi vengono messe in evidenza le fragilità del sistema ma allo stesso tempo il gusto del rischio alla ricerca della equa conclusione che uno Stato deve mettere in atto nei momenti topici della propria storia. La regista non fa sconti a nessuno e nemmeno stupida retorica.
L’OSSESSIONE di Maya-Jessica Chastain è quella di una nazione che dopo l’11 settembre si è trovata spiazzata, incredula, confusa. Maya ne rappresenta il simbolo stesso. Così Chastain offre la sua apnea esistenziale, la inietta nello spettatore che si ritrova proiettato in un mondo senza certezze, in continuo divenire, dove l’assoluto è il senso del provvisorio. Non esistono i buoni e gli eroi alla John Wayne. Non ci sono nemmeno i nemici pubblici numeri uno. Esiste solo un mondo dove regna il caos, dove il confine tra il giusto e l’ingiusto viene superato dallo stato di necessità, dove è il nulla il nostro appiglio.<<Zero Dark Thirty>> con il suo ritmo incalzante, con i suoi 157 minuti che paiono durare lo spazio di un respiro, diventa quindi un’allegoria dei tempi moderni. In tutto ciò a trionfare è la forza del cinema. Nulla è sbagliato nella costruzione e nello svolgimento: diviso in otto capitoli, il film è un fiume in piena che travolge e rende partecipi. Una summa di tecnica, dinamismo, dettagli, azione, intelligenza. Jessica Chastain ne è l’indiscussa regina. L’avevamo scoperta nel magnifico e difficile <<The tree of life>> di Terrence Malick, quasi eterea, ed ora eccola qui in odore di Oscar dopo aver trionfato ai Golden Globe. Mai sopra le righe, misurata e volitiva, è Maya, la sopravvissuta che fa la storia, l’idea materializzatasi in abiti femminili di un’America in cerca di sé stessa che vuole chiudere, come un portellone di un C130, i conti con ciò che è stato senza sapere cosa ci sarà dopo. Se tutto sarà finalmente finito o se nulla sarà mai più come era prima dell’11 settembre. C’è il senso della storia, del suo incedere. C’è il senso dell’individuo che la crea e la subisce. Ci sono lacrime finali, quasi una liberazione che non cancellano i dubbi. Anzi li incrementano. Maya ha raggiunto il proprio scopo ma ora cosa le resta? A noi di sicuro il ricordo di un film splendido.