The Mule, Il Corriere, non fa parte della migliore produzione di Clint Eastwood. È un’opera minore, gradevolissima sia chiaro, che scorre con una qualche lungaggine ma che nulla aggiunge a una delle cinematografie individuali più importanti. Chi, per esempio, ha sperato di rivedere nell’opera dell’ottantanovenne maestro americano una sorta di naturale proseguimento delle tematiche presenti in Gran Torino rimarrà molto probabilmente deluso. Ne Il Corriere di quel film non c’è nulla se non lo sceneggiatore, Nick Shenk, e il peso dell’anagrafe. The Mule non è nemmeno una sorta di testamento cinematografico-stiano a casa gli iettatori- del giovanissimo-di testa e di animo- autore perché questo road movie alla fine si riduce davvero a poco. C’è una trama esile come un fuscello alla base: un quasi novantenne che ha trascorso la propria vita lontano dalla famiglia vuoi per egoismo vuoi per ansia di arricchimento e passione si ritrova sul lastrico e accetta di trasportare carichi di droga sempre più copiosi lungo le sterminate strade degli Usa. Lo fa per ricomprarsi casa e terreno espropriati, per regalare qualcosa ai veterani della guerra di Corea e per pulirsi la coscienza con la propria famiglia. Dal Texas al New Mexico, dall’Illinois alla California è un continuo andirivieni lucrativo con una alea di impunibilità ad alleggerire i viaggi del furgone Ford e successivamente Lincoln dovuta all’insospettabile anagrafe di quello strano autista. Naturalmente nell’esistenza di mister Sharp ci sono un nucleo familiare-tranne la nipote- che lo ripudia a causa delle sue proverbiali e ventennali assenze, un cartello di spacciatori messicani disposti a tutto e i solerti quanto abbastanza imbranati agenti della DEA con il belloccio Bradley Cooper a capo di una microsquadra di investigatori. Cosa manca quindi al film per essere considerato ai livelli dei migliori lavori di Eastwood?
Parecchio. La prima nota dolente riguarda non il contenuto bensì la tecnica con cui è stato scritto il soggetto. L’impressione è quella di trovarsi di fronte a due film differenti ogni qual volta le azioni dell’uno, Eastwood, scorrono in parallelo con quelle di chi sta cercando di scovare qualcosa di utile per smascherare il cartello degli spacciatori, i poliziotti. Mentre il << vecchio >> fa le sue scorribande negli sterminati paesaggi yankees, fischiettando, ascoltando canzoni country, dormendo nei motel, gli agenti Bates, Cooper,e il suo collega Michael Pëna, programmano improbabili appostamenti senza che la regia abbia un riguardo particolare nei confronti delle sfumature psicologiche dei due. Ne risultano personaggi molto piatti, con poco spessore, sbattuti lì. Non appare sufficiente che solo verso la conclusione l’incontro tra il braccato, sempre Clint, e il cacciatore, sempre il bel Bradley, lasci intravedere una certa similitudine tra i due in materia di disattenzioni familiari. Se in Gran Torino, tanto per citare un esempio che piace a molti, il personaggio di Eastwood poteva contare su un alter ego, qui questa dicotomia viene totalmente a mancare. Non c’è contrasto, non c’è ansia interiore. È un film Eastwoodcentrico che dell’autore contiene le caratteristiche: la difficoltà di accettare il mondo nuovo, lo sguardo paternalistico nei confronti di chi è più giovane, la ricerca di un’espiazione morale che contempli però il mantenimento dei propri principi. L’amarezza dello sguardo di Eastwood è sfuocata, minore di quella per esempio de Gli Spietati, autentico manifesto all’epoca-si era nel 1992- del declino degli eroi e del western e prima grande riflessione dell’autore sul tramonto esistenziale. Qui, alla soglia dei novantanni il corriere Earl Stone procede con spensieratezza e senza rete su un filo sottilissimo. Sembra quasi non abbia voglia nemmeno di redimersi. I conti con la coscienza, il risveglio morale, arriveranno ma al suono del gong, appena in tempo perchè possa essere scritta la parola fine.
Così Il Corriere si riduce a un film privo di pathos, lineare, senza sussulti, senza sorprese. Non cresce di intensità né la perde: è monocorde, scontato. Certo Eastwood ha occhio ironico e crudele nel mettere in scena sia il ridicolo di una vecchiaia che non si arrende- i balli, le donne giovani- sia la cattiveria di chi, a causa dell’età, può permettersi di fregarsene di chiunque. Ma tutta la sfera intima, la riflessione appenna accennata sul tempo che non si recupera e il dramma che dovrebbe devastare la psiche del suo protagonista-ovvero il rapporto con la famiglia-sono schematici, più da soap opera o serie tv che da film di uno dei maggiori registi contemporanei. E non bastano né il finale né la bellezza formale delle riprese per scaldare gli animi di chi ha amato un altro Eastwood . È chiaro che il film sia piacevole e ben recitato: più che Cooper a tener testa in fatto di bravura interpretativa a Clint Eastwood è Dianne West , meravigliosa nel tratteggiare una vita da << abbandonata >> e grande protagonista di una delle scene più autenticamente sentite di tutto il film, guarda caso sul letto di morte. Troppo poco per inserire The Mule, Il Corriere tra i lavori indimenticabili di un autore che ci ha donato pagine ben più profonde e coinvolgenti.