PER chi è abituato alla cinematografia giapponese nelle sue varie forme, da Ozu a Kurosawa, da Kitano a Tsukamoto o Takashi Miike, << Departures >>, vincitore dell’Oscar come miglior film straniero per il 2008, si presenta come un prodotto atipico. Non poteva essere altrimenti per un film che ha riscosso il consenso dei giurati americani, in genere poco inclini a concedere il riconoscimento ad opere troppo personali o caratterizzate da discorsi e scritture che per arrivare all’universalità usano un linguaggio cinematografico poco omologato. Su questo fronte il buon film di Yojiro Takita era perfetto per accontentare il pubblico occidentale e non è un caso se fin dai primi giorni di programmazione italiana abbia ottenuto incassi decorosi al botteghino. A volte originale e furbetto, << Departures >> dispensa lacrimucce, fa sorridere e ridere, contiene insomma tutti gli ingredienti necessari per far esclamare a chi non sopporta l’ <<orientaleggiante a tutti i costi >> che da questo momento una maggiore attenzione ai titoli che giungono dall’Asia si potrà concedere. Da quest’ottica
il film è un importante cavallo di Troia commerciale per sdoganare una volta per tutte un movimento eterogeneo, con mille sfaccettature, che dalla Cina alla Corea del Sud, da Hong Kong al Giappone ha dimostrato di possedere un dinamismo, autorale e produttivo che non ha eguali in nessuna parte del mondo.
<< Okuribito >>, il titolo originale si rifà al cerimoniale di preparazione dei defunti, è una storia allo stesso tempo curiosa e molto semplice. Curiosa perché ci parla di Daigo un violoncellista che perso il lavoro torna con la moglie nella piccola cittadina dove era nato. Qui risponderà a un’inserzione su un giornale locale di un’agenzia che offre un posto da dipendente. L’impiego non è specificato: Daigo legge ciò che c’è scritto, si parla di viaggi e lui pensa si tratti di gite turistiche e di tour. Non sarà così: in realtà l’agenzia si occupa di cadaveri da preparare, pulire, rivestire, renderli belli e giovani prima della cremazione o della sepoltura. Daigo viene in contatto per la prima volta con la morte fisica, di cui non conosce l’aspetto esteriore. Quando sua madre morì non andò al funerale perché troppo lontano e in ritardo. Il suo nuovo mestiere gli consente quel guadagno che aveva perduto dal giorno del fallimento dell’orchestra sinfonica e al conseguente crollo del proprio sogno. Ma è un mestiere da celare, da non svelare nemmeno alla moglie, un mestiere che la società sembra mettere al margine, del quale non bisogna vantarsi perché si perderebbero affetti ed amicizie. Eppure Daigo dopo i primi momenti, tratteggiati dal regista in modo rocambolesco e leggero, avverte sempre di più che quella è la sua vera missione. Lo capisce confrontandosi con il suo maestro Sasaki nel quale rivede una guida capace di aprirgli gli orizzonti mentali, di dimostrargli l’arte che sta dietro alla nuova professione, l’utilità sociale e quella etica. E’in questo suo seguire Sasaki e Daigo nel preparare i morti prima di adagiarli nella bara, nel renderli belli come nelle foto e come vogliono i parenti che il regista Takita esprime la propria <<giapponesità>>. Sfrutta il soggetto cinematografico per arrivare alla valenza del rituale, al recupero delle origini che mai come nel Sol Levante costituiscono la base un tempo solidissima della società, il tratto distintivo di un mondo che gli occidentali spesso vedono come staccato da tutto il resto. Invece è attraverso l’acquisita consapevolezza del mestiere e quindi di sé stesso che Daigo, interpretato dal divo televisivo Masahiro Tomoki, trova il coraggio di affrontare l’esistenza e il proprio ruolo, accettando l’abbandono della moglie, la perdita delle amicizie, a favore di una relazione sempre più intensa con il maestro Sasaki e con i suoi morti.
adeguata dalla sceneggiatura. Ma resta un buon film.