Il viaggio di Giorgio Diritti nella terra dell’uomo

luomo-che-verra-poster-italia_mid.jpgNON AVEVO alcun dubbio che il secondo film di Giorgio Diritti sarebbe stato all’altezza e forse superiore al primo, a quel <<Il vento fa il suo giro >> – il commento è inserito nel mese di luglio 2008 del blog- che ha rappresentato un caso di spontaneità mediatica due stagioni orsono e soprattutto di originale qualità. << L’uomo che verrà >> è il naturale proseguimento del discorso iniziato da Diritti con quella opera. Si badi bene: la coerenza narrativa è una dote naturale, istintiva, propria di pochi. Vedendo << L’uomo che verrà>> si ha quasi l’intuizione che il regista bolognese abbia in mente un affresco complessivo e che questi due film non siano altro che parti di esso, sezioni di un progetto globale che come obiettivo ha la descrizione della natura umana attraverso originali messe in scena. In << Il vento fa il suo giro >> Diritti poneva a confronto le diversità culturali, le difficoltà di accettazione. Era un discorso disincantato, per nulla retorico, crudele e allo stesso tempo amaro e melanconico di come sia difficile cambiare l’uomo al cospetto degli altri uomini. Un film di rara profondità intellettuale, oltre che di oggettiva bellezza. Emozionante, coinvolgente.   <<L’UOMO CHE VERRA’>> segue la stessa linea: non c’è più la lingua occitana a infilarsi nelle nostre orecchie bensì il dialetto emiliano delle colline e montagne bolognesi. Siamo in Val di Sole, vicino a Marzabotto, nel 1943. Ancora una volta Giorgio Diritti taglia il superfluo, va al sodo. Riprende una comunità di contadini alle prese con la seconda guerra mondiale. Lo fa descrivendo questo mondo attraverso gli occhi di una bambina, Martina- l’interpretazione di Greta Zuccheri Montanari è destinata a restare nella memoria- che non parla dopo aver subìto il trauma della morte del fratellino. Seguendo la bimba all’interno del proprio nucleo sociale, Diritti percorre il tragico lasso di tempo, dal dicembre 1943 all’ottobre 1944, in cui quella valle venne sconvolta dalle rappresaglie naziste che culminarono nella stragi di Marzabotto e di tutta la zona dal 29 settembre al 5 ottobre 1944. Ma il suo è un discorso lontanissimo dalla facile ricostruzione storica. Forse per la prima volta nella storia del cinema italiano un regista usa la guerra come sfondo, come cornice per parlarci dell’umanità vittima della storia e di sé stessa, innocente in quanto destinata a subire ciò che non è deciso da essa, non è determinato, non è centralità del proprio quotidiano. Gli occhi di Martina scoprono quindi un mondo crudele. Il suo mutismo è la prima risposta originaria a una morte ingiusta, quella del fratello, il suo silenzio è il rumore di chi osserva un mondo che è colpevole anche alla sua età, dove i bimbi la vessano in quanto muta, i commessi viaggiatori cercano di accarezzarla morbosamente. La sua mente è lucida, disincantata. E’ il terzo occhio di Diritti, l’innocenza alle prese con il non inizio dei propri sogni.Ci vorrà l’orrore, un orrore <<kurtziano>>, per farle emettere i primi vagiti in contemporanea con quelli del nuovo fratellino che lei salverà. Martina sarà pronta per una nuova vita. << L’uomo che verrà>> non sarà solamente il fratellino in fasce, sarà anche lei, forse migliore o forse imprigionata come chiunque nella propria vita quando terminerà la tempesta e torneranno il sereno e la pace. Martina sarà comunque pronta per vivere. Questa è la speranza che l’autore ci offre. L’ASSENZA DI BUONISMO era già stata una costante di <<Il vento fa il suo giro>>. Ne <<L’uomo che verrà>> il regista conferma il suo taglio particolare di narrazione: fa poesia in continuazione ma prendendo le distanze da chiunque e quindi non cade nel facile sentimentalismo o nella lacrima ad ogni costo. Ce ne offre, e tante, attraverso la coralità delle interpretazioni, affidandosi a pochi professionisti – Alba Rohrwacher, Maya Sansa, Stefano Bicocchi, (il comico Vito istituzione bolognese)- e tanti dilettanti, gente comune del posto che come nel film precedente si trasformano in attori, a volte con risultati sorprendenti- il caso di Claudio Casadio ne è la riprova- per una dimensione <<verista>> del cinema. Non c’è solo la lezione di Ermanno Olmi dietro a Giorgio Diritti. Sarebbe limitativo indicarlo come un prosecutore di uno dei grandi autori nostrani. Diritti ha la propria originalità: ancora una volta penso che sia non solo un profondo conoscitore di cinema in tutte le sue forme ma un amante, forse indiretto, del western. Lo avevo già scritto per <<Il vento fa il suo giro>> lo confermo ora. I PERSONAGGI del film si confrontano con la guerra in modo del tutto speciale. Non c’è idea della nazione da difendere, non esiste ne <<L’uomo che verrà>> questo tipo di scelta. E’la terra, il proprio lavoro, il proprio raccolto, la propria fatica che i contadini vogliono preservare. Si diventa partigiani per difendere il privilegio della fatica, della famiglia,del quotidiano. Lo dicono in una delle scene iniziali coloro i quali cercano di convincere i giovani a ribellarsi ai tedeschi. E’ <<questa terra è nostra>> non dei fascisti, non dei nemici. E la guerra la facciamo per questo. Guerra quindi come difesa del proprio mondo non di una bandiera. Controreazione a un’usurpazione. Questo è western, inteso come genere al di là di alcune riprese, i partigiani a cavallo visti dall’alto o le stesse immagini delle stragi che mi rimandano a un Peckinpah, con maggiore senso della misura, più controllato, raffinato. C’E’CHI NELLE RECENSIONI ha subito messo le mani in avanti spiegando che Diritti si tiene alla larga dal revisionismo storico. E’ vero. Ma non fa nemmeno sconti né a una parte né all’altra, esattamente come accadeva in <<Il vento fa il suo giro>>. La sua è una guerra obiettiva vista dalla lucida ottica di chi ne è vittima. Il dialetto dell’appennino bolognese è efficace nel descrivere questa visione tutta contadina, tutta proiettata alla propria terra. La casa di Martina è un andirivieni di partigiani e tedeschi. Vogliono una cosa sola: mangiare. E le donne lo capiscono, lo esprimono nella musicalità di quel linguaggio. Sono gli umili, i non protagonisti gli unici che possiedono la visione dello stato delle cose.Il destino di chi tiene alla terra è quello di adoperarsi per gli altri. Schiavi di una condizione naturale che questa gente indossa come scudo, come difesa e come reazione. La schiavitù alla propria terra dei contadini di <<L’uomo che verrà>> non è però accettazione passiva. Mi sembra piuttosto una saggezza, l’unica corazza che loro possono anteporre alla follia della barbarie. L’orrore, sembra dirci Diritti, è nella natura umana. Ci ammonisce senza compiangerci e offrendoci un modo per uscirne: la forza etica della sopravvivenza. Forse Martina è davvero la nostra ultima speranza.

Condividi!