Il paradiso amaro di Garrone

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CAPACE di affrancarsi dal successo, grande esploratore per via cinematografica delle umane debolezze, Matteo Garrone con <<Reality>>, vincitore come il precedente <<Gomorra>> del Grand Prix della Giuria a Cannes, si conferma l’autore più interessante della scena italiana. Non più una promessa ma un regista fatto e per nulla finito che sa, come pochissimi, esprimere il proprio punto di vista sul contemporaneo. A ben pensarci è l’autore che tratta meglio di altri le ossessioni. Erano tali quelle del protagonista, il meraviglioso Ernesto Mahieux, de <<L’imbalsamatore>>; era ossessionante il rapporto carnefice-vittima tra Vitaliano Trevisan e Michela Cescon in <<Primo amore>>. L’ossessione ritorna in <<Reality>> ma con un diverso registro, con un timbro solo all’apparenza più leggero, non meno amaro e forse più universale. Come dice il titolo qui si parla di televisione e di Grande Fratello ma in modo lontanissimo dalla retorica, dal j’accuse sociale, dal tutto sommato scontato discorso sulla futilità del mezzo o della relazione tra modello proposto e assuefazione da parte dello spettatore passivo. C’è anche questo, sia chiaro, ma non è il bersaglio che Garrone vuole andare a centrare. L’autore italiano si spinge ben oltre, ci propone una sorta di 1984 alla napoletana, dove la televisione non controlla ma è l’individuo stesso che ormai le domanda una valenza esistenziale e protettiva.

CON <<REALITY>> si entra in una fase due del problema che in tanti registi hanno già trattato. La televisione come potere abitata da mostri di <<Essi vivono>> di John Carpenter diventa quindi preistoria cinematografica così come altri riferimenti colti o meno del cinema degli anni passati. Lo stesso Garrone abbonda di citazioni quando parla delle idee di partenza di <<Reality>> citando illustri predecessori italiani,  in primis <<Bellissima>> di Visconti e non è un caso che sia proprio quel capolavoro ad interfacciarsi quasi alla perfezione con ciò che l’autore  spiega nel suo ultimo film. Data per scontata l’invadenza della televisione, è l’ossessione della popolarità che anima il microcosmo napoletano del quale parla Garrone. L’evoluzione dei tempi però taglia la marginalità del discorso di Visconti per portarlo a una dimensione universale. Luciano, pescivendolo che si arrangia come milioni di altri per sbarcare il lunario e non disdegna le piccole truffe, non è altro che il simbolo di chi guarda al sistema dei reality come mezzo per avanzare e risolvere i problemi del quotidiano. A suo modo, dopo aver superato le prime selezioni del Grande Fratello, diventa un piccolo idolo del quartiere ma questo non porta ad altro che far scattare un’ ulteriore ossessione: dell’ essere controllato, spiato, giudicato non da chi lo circonda, ovvero la sua famiglia o il suo nucleo sociale, ma da tutti coloro che non conosce. Così all’ansia della notorietà aggiunge la condizione passiva di chi vede nel sistema televisivo l’unico in grado di giudicare, di approvare o bocciare, di stabilire chi vale e chi non. Il <<reale>> non è più il mondo vissuto ma è dentro la scatola, è all’interno della casa del Grande Fratello. Si invertono i ruoli: l’esistenza comune per Garrone si trasforma in riproduzione della virtualità con un rovesciamento sistematico sul quale il regista spinge fin dalla prima, splendida, sequenza, una lunga ripresa dall’alto di una carrozza con rispettivi cocchieri immortalata nel tragitto che dal traffico la conduce in un altro ruolo del reale artificiale, un castello dove vengono festeggiati matrimoni. E’ un inizio che sfocia a poco a poco in balli e libagioni popolati da moderni <<freaks>>, quasi felliniani, dove l’ospite d’onore è il partecipante al <<reality>> dell’anno precedente. Luciano, sua moglie, la sua famiglia, in apparenza appaiono meno mostruosi, hanno un non so che di umano. E lo resteranno fino in fondo perché Garrone disegna le vicissitudini del suo protagonista con compassione più che con critica feroce. E’caustico nel tratteggiare e affondare il coltello nella piaga del contenitore, non in chi si muove all’interno di esso.

NON E’ casuale che ci sia spesso un continuo rimando alla fede, alla religione, alla preghiera, rovescio di una medaglia umana che non appare più credibile né dall’una né dall’altra parte. Questo contrasto uscirà prepotente nel finale. Dalla via crucis pasquale si passerà al raggiungimento della casa del Grande Fratello e solo allora, come in un sogno- da osservare e non da vivere però- la lenta discesa di Luciano nella psicopatia mediatica raggiungerà il suo culmine, regalandogli  l’estasi della pace e dell’incanto. E la cinepresa si alzerà ancora, allargherà il campo nella notte romana dissolvendosi poi a schermo buio con i titoli di coda.

<<REALITY>> è un film molto più complesso di quanto possa sembrare. Il merito di Garrone, al di là delle qualità superiori che mostra sia nell’evoluzione del racconto sia nella tecnica di riprese, luci e ambientazione, è di farlo apparire semplice, quasi favolistico e trasognato. La luce viva, prepotente, illumina gli esterni ma tutto piomba nella semi oscurità, in un buio cupo quando ci si avvicina agli interni. Il palazzo decadente, testimone di un’antica opulenza, nella quale Luciano e i suoi risiedono è un altro simbolo di un remoto non più ricostruibile. L’altra parte di vita trascorre nei centri commerciali anonimi, asettici, perfette riproduzioni del reale che sembrano uscite dai romanzi di James Graham Ballard. Sono <<non luoghi>> sospesi, indicatori dei valori nei quali l’umanità innocente ma malata di Matteo Garrone si muove inseguendo promesse, sconti e guarda caso set per provini di <<reality>>. E lo stesso avviene nel visionario mondo dell’autore italiano tra le piscine e gli scivoli che le circondano.

LA VITA vissuta, volgarmente definita <<vera>>, viene svenduta da Luciano che per inseguire la sua ossessione a poco a poco si sbarazza di tutto ciò che possiede e che in nome della religione televisiva- utilitaristica quanto l’altra- inizia a donare ai barboni del rione. Nel caravanserraglio di <<Reality>> nulla fa una grinza, tutto scorre che è un piacere, senza contraddizioni, senza banalità. Pur pescando anche dal suo repertorio precedente- la splendida scena della discoteca sembra uscita da <<L’imbalsamatore>>– Garrone assesta un duro colpo al cuore. Il significante non tradisce mai il significato e gli interpreti forniscono delle prove sbalorditive. Di Aniello Arena, nel film Luciano, si sa ormai tutto: condannato all’ergastolo è diventato attore in carcere. Naturale, misurato, trasognato il giusto, è un attore perfetto, espressivo, simpatico. Loredana Simioli, Maria sua moglie, è l’unica che appare ancorata alla realtà e quasi fuori dal mondo per i valori che propone. Ma è tutto il cast che funziona con Nando Paone degno compare di Luciano e tutti gli altri, scelti per fisicità particolare e capacità recitative, che non sbagliano un colpo.  <<Reality>> ci regala sorrisi amari e non indica alcuna possibilità di salvezza. Luciano in fondo è tutti noi.

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