Leggo recensioni entusiastiche di << Tulpan >>, il film kazako che nel 2008 ha vinto il premio << Un Certain Regard >> al festival di Cannes. A leggere le critiche sembra di essere di fronte a uno di quei film che non si possono liquidare con facilità, a un semi capolavoro da non perdere, pena il restare monchi di un’opera fondamentale in questa stagione cinematografica pre Cannes povera di proposte interessanti e di qualità. Non voglio dire che << Tulpan >> sia un film brutto, da sottovalutare. Tutt’altro, solo che è un’operina abbastanza scarna, semplice-semplice, a tratti divertente, ben girata, benissimo recitata che ci mostra la vita dei pastori del Kazakistan, Stato asiatico dell’ex Unione Sovietica. La trama è molto lineare: nella steppa non esistono donne. L’unica è la giovane Tulpan ed è lei che Asa, reduce dal servizio di leva in marina, vorrebbe sposare. Il matrimonio gli permetterebbe di ricevere in dote dal commissario politico della zona il proprio gregge di pecore. Ma Tulpan, che nel film non si vede mai se non di spalle con una ciocca di capelli raccolti in una lunga treccia, andrà in città a studiare perché la madre vuole così. Nonostante gli sforzi Asa non riuscirà a coronare il proprio sogno d’amore. La sua vita è a un bivio: per costruirsi la propria storia, ovvero il proprio passato, racconta di incontri fantastici con una piovra negli abissi degli oceani. E’un refrain che ripete ogni qual volta va assieme al cognato pastore e all’amico Boni nella juta della famiglia di Tulpan per convicere i genitori a dargli in moglie la figlia. Asa vive quindi di provvisorietà, quasi di ricatto sociale. Per la società della steppa se non possiedi non sei comunque degno di avere una famiglia, di fare figli. E se non sei sposato non puoi possedere nulla. E’la vita dei giovani kazaki. Resta un sogno: quello della città, che è quasi sconosciuta e chissà dove sta. Ne parla in continuazione l’amico Boni che gira per la steppa al volante di un trattore tapezzato di foto di donne dai seni generosi , ballando sulle note di << Babylon >>. Le sue fantasie sul mondo sono le stesse di Asa quando parla degli incontri con la piovra e i mostri del mare. Ma entrambi girano in circolo negli spazi sconfinati dove il vento aspira la sabbia e la vita scorre sempre uguale in una microsocietà pastorale, ognuno dentro la propria juta con i figli che ascoltano le notizie sul mondo dalla radio per raccontarle al padre, con le mogli che accudiscono figli e mariti, con mariti che si alzano all’alba per pascolare le bestie, con il silenzio che è spezzato dai canti di bambini, dai suoni di animali, con i giochi dei più piccoli in cui un pezzo di legno diventa un cavallo e una tartaruga un’automobilina, con gli agnelli che muoiono misteriosamente. E’chiara quale sarà la scelta di vita di Asa: quella è la sua gente, quella è la sua terra, quello sarà il suo destino. Lo stesso della sorella Samal, la giovane donna bella e forte che si adegua ma che in cuor suo desidererebbe altro. << Tulpan >> è un film ironico, divertente, fatto soprattutto di grandi paesaggi, di volti ognuno dei quali esprime una propria caratterizzazione. Il regista Sergej Dvortsevoy è molto bravo nel riprenderli, nel farli vivere con poche ma sapienti battute, nel trovare l’assurdo nel nulla che circonda i protagonisti – speciale è la scena del cammello che insegue il sidecar del veterinario sul quale siede il piccolo cucciolo-, nell’offrire a noi occidentale una fotografia esatta e disincantata di come si vive da quelle parti. Eppure ciò non è sufficiente per lasciare una traccia indelebile nella storia del cinema degli ultimi anni come vorrebbe la maggior parte dei recensori italiani e non. Al film manca infatti l’approfondimento del lato oscuro. La steppa è crudele in quanto natura ma il contesto microsociale nel film di Dvortsevoy è descritto fin troppo all’acqua di rose.Ben diversa, ad esempio, la cupezza e la feroce critica che il regista cinese Wang Quanan aveva mostrato in un film per certi versi assimilabile a << Tulpan >>, << Il matrimonio di Tuya >>, ambientato nella steppa mongola dove l’esaltazione della civiltà pastorale e della stessa città come mondo quasi ideale veniva fatta a pezzi con una storia di sopruso fisico, sociale e intellettuale nei confronti di una donna. Ricordo le recensioni del film, alcune esaltanti, altre discrete o poco più. Come sempre è questione di metro e di gusti personali ma ho il sospetto che la pochezza delle proposte di queste ultime settimane abbia costretto i critici a sovrastimare il grazioso << Tulpan >> che in altri contesti sarebbe stato liquidato con un paio di stellette. Di fatto << Tulpan >> è un film normale, certamente da vedere, ma nulla di più.