UNDICESIMO film di David Fincher, al quale vanno aggiunti i lavori televisivi e i numerosi videoclip, << Gone Girl >>, sottotitolo italiano L’amore bugiardo, conferma se mai ce ne fosse stata la necessità il valore di uno tra i maggiori autori degli ultimi anni. Non sono meriti da poco: in Gone Girl, infatti, c’è la summa di tutta l’opera di Fincher. Il ritmo, la suspence, la doppiezza dei personaggi, i loro risvolti psicologici, l’analisi dei tempi che viviamo e della nostra relazione con i mezzi di comunicazione di massa, una fotografia crudele, spesso sarcastica ma non nuova, della relazione coniugale, il gioco delle parti tra vittime e carnefici, la visione senza sconti della vita, il crollo di qualsiasi mito. Il tutto condensato in due ore e trenta minuti di grande cinema dove nulla deborda, dove la perfezione viene raggiunta da un’abile alchimia tra sovrabbondanza di stati psicologici differenziati e sottrazione. Ne risulta un coinvolgimento assoluto da parte dello spettatore ma in modo meno emotivo di quanto si possa credere. Perché questo è un film da osservare più che da vivere; perché, ed è un’abilità tutta di Fincher, è il regista che ci assegna un ruolo. Siamo in sala per vedere una storia che permetterà di guardarci meglio allo specchio. Per arrivarci, però, ci denuda, ci succhia l’anima e il cuore, non ci dona lacrime, ci priva di emozioni. Agisce sul cervello. Il nostro ruolo non è tifare per la splendida psicopatica e giustiziera Amy o per il finto ingenuo Nick. Questo ha deciso Fincher. La sua grandezza risiede nel fatto che realizza un film dove le emozioni crepitano al suo interno, non ci raggiungono. Per gustarle appieno noi dobbiamo restare freddi. Ma a bocca spalancata.
BASTANO queste poche righe per spiegare che Gone Girl non è un film ruffiano. Piace perché non cerca di specchiarsi in se stesso ma guarda avanti e quando corre il rischio di trasformarsi in maniera ecco che dalla regia giunge un’intuizione. Spesso ironica, a volte vicino all’estetica splatter accennata ma mai disturbante per merito anche di una azzeccata scelta dei protagonisti e di un soggetto, tratto dall’omonimo romanzo di Gillian Flynn, che nella versione cinematografica bada a mostrare l’essenziale più che il superfluo. Parlare della trama è privare lo spettatore di svariati giri sull’ottovolante. Possiamo dire soltanto che c’è un marito che il giorno dell’anniversario del matrimonio torna a casa e non trova più la moglie. Ma già allora Fincher ci farà intuire che dietro a tutto ciò si cela un grande gioco. Forse al massacro, di sicuro intrigante, sorprendente, soprattutto amaro e crudele. Perché entreranno in azione i tic del contemporaneo: dai selfie ai talk show sui fatti criminali, dalle indagini scandite dalla presenza asfissiante dei media e della gente, da un lungo serpentone di individui che come il coro nelle tragedie greche si muove da una parte e dall’altra ed applaude o condanna, assolve o ansima. E ci saranno soprattutto loro, gli eroi mostruosi della vita di coppia, Amy e Nick, che appunto sfruttando questa insana contemporaneità diventeranno giustizieri e prigionieri l’una dell’altro, legati indissolubilmente dalla trasparenza dei loro ricatti morali e non. Tutto in Gone Girl finisce per diventare riflessione sulla nostra doppiezza. Non è un caso che il film proceda per salti temporali descritti ora dall’uno ora dall’altro dei protagonisti. David Fincher affetta l’idea della relazione interpersonale di coppia; la maciulla a poco a poco, la strappa. La ricompone solo per parlarci del rapporto di forza basato sulla menzogna condivisa, sul sospetto, sulla consapevolezza della reciproca mostruosità dalla quale non possiamo attenderci che ulteriori evoluzioni. Nuove verità, nuovi stravolgimenti. È una carneficina morale alla quale nessuno sfugge e che anzi deve essere inscenata, calcolata per chi osserva, mostrata. Quasi fosse la base stessa della società. È un tema caro a Fincher fin dai suoi primi film. L’età dell’innocenza è una pura menzogna ideologica.
È PARECCHIA la carne messa sul fuoco di Gone Girl. In mani meno abili avrebbe potuto essere troppa, creare confusione. L’abilità di Fincher risiede nel fatto che sa dove andare a parare; conosce le regole dello spettacolo e alla fine ad averla vinta è proprio lui che crea un prodotto raffinatissimo adatto però a tutti i palati. Tra i suoi meriti quello di non avere sbagliato il cast e soprattutto i due protagonisti. L’autentica eroina della storia, proprio perché mostro tra i mostri, è la bellissima Rosamund Pike. Profilo alla Debora Unger, classe da vendere e soprattutto bravura. Capace di passare dal ruolo della moglie ideale a quello della peggiore tra le psicopatiche in giro per il mondo. Doppia e disperata come nessun’altra. Un’attrice perfetta per il controllo che ha del personaggio e che appare sempre credibile anche nelle scene in cui sarebbe bastato un nulla per farla scadere nella macchietta. La sua è una perfidia assoluta, una doppiezza che spaventa e ipnotizza. Ben Affleck, a dispetto della sua aria da bravo ragazzone americano, prosegue invece il suo già vasto campionario di grandi interpretazioni. La sua forza è quella della normalità dell’apparire, della sua essenzialità, migliorata anche attraverso la << seconda >> professione di regista non banale e interessante. È un marito vittima della propria…colpevolezza. Necessario alla moglie quanto lei è necessaria a lui. Attorno alla reciproca tela di ragno nella quale i due resteranno invischiati forse per sempre, ruotano i personaggi di contorno. Anche loro burattini di questa messinscena che si chiama vita all’epoca dei social network.