UNA VITA intera immersa nella finzione. Nel non potere essere sé stessi se non dentro la prigione delle quattro mura. Dorata sì, crudele anche. Fingere, recitare, camuffarsi, non resistere al peso dell’età, manomettersi, ricostruirsi, dipendere, crearsi un mondo alternativo, anzi falsamente alternativo, dotarsi di doppia personalità fino a soffocare lambendo quel confine tra ciò che gli altri vedono negli uomini di spettacolo e quello che in realtà sono o vorrebbero essere lontani dalla polvere del palco. C’è tutto questo nel bellissimo film di Steven Soderbergh << Behind the candelabra >>, << Dietro i candelabri >> dedicato alla relazione che vide come protagonisti l’eccentrico, famoso, pianista Valentino Liberace, che i << ragazzi >> della mia generazione conobbero guardandolo sempre con una punta di stupore che dal sospetto di diversità virava verso l’ammirazione per le sue indubbie capacità, e Scott Thorson. Un film divertente, nel quale Michael Douglas e Matt Damon danno una strepitosa prova d’attore e,allo stesso tempo un film molto profondo, più complesso della storia stessa che Soderbergh mette in scena.
LIBERACE era il pianista eccessivo che entrava sul palco a bordo di una Rolls Royce Phantom limousine, l’unica con guida a sinistra realizzata, con il suo amore Scott che lo accompagnava. Indossava pellicce, lustrini, dava il via ad ogni affollatissimo concerto facendo battute, creando quell’empatia con il proprio pubblico che mai andò in crisi fino all’anno della morte, 1987, dovuta alla sindrome da immunodeficienza. Come Rock Hudson in un periodo in cui l’Aids era ancora una malattia misteriosa e demonizzata, qualcosa da celare e che comunque veniva spacciata come la condanna di chi aveva vissuto in modo dissoluto la propria sessualità. E’ su questi temi che Soderbergh costruisce la propria opera, forse l’ultima stando alle parole del regista, e i due attori principali una delle loro prove di maggior spessore dell’intera carriera. Perché << Dietro i candelabri >> si presta a molte letture. D’accordo la storia potrebbe risultare persino banale, scadere nella macchietta o in una versione lussuosa del tradizionale << vizietto >>. Invece non è così. L’autore che vinse a Cannes con l’indimenticabile << Sex, lies and videotapes >> – il film che lo lanciò a sorpresa nell’ormai lontano 1989 – anche qui traveste di leggerezza problematiche ben più complesse. Se da un lato c’è un’autentica storia d’amore tra il divo che per una volta nella vita riesce a trovare l’amore da parte di chi in apparenza non è ossessionato dal potere della fama e della ricchezza materiale, dall’altro c’è la tristissima esistenza di chi è impossibilitato, per paradosso, a mostrare e a vivere pienamente sessualità, sentimenti o l’espressione dei propri pensieri. E’ sulla dicotomia tra artista, mondo dello spettacolo e uomo che Soderbergh gioca la propria partita. Lo fa sorretto da due attori strepitosi che alle mossette e agli stereotipi antepongono la ricerca e l’essenza individuale. Michael Douglas- Liberace e Matt Damon- Thorson crollano nella sindrome l’uno dell’altro. L’amore non è sesso né sentimento: la sua scansione è ritmata da una cappa di impossibilità,sulla quale grava la legge ferrea dello show business dell’epoca, e dalla contemporanea illusione di un’eterna giovinezza alla quale si è costretti. Il compito dell’artista, sono parole di Liberace, è quello di far divertire la gente, oltre gli accadimenti della storia e le domande che vengono poste. Un destino al quale non si sfugge
CIÓ che ossessiona Soderbergh è la relazione tra individuo e la compulsione quasi necessaria alla quale ci si assoggetta per giustificare e lenire le proprie perdite. Liberace ricostruisce il proprio volto attraverso la chirurgia plastica, obbliga anche il proprio amante a modificare la propria fisicità, gli impone una drastica cura dimagrante. Thorson si adegua, offrendo all’altro la prova suprema del sentimento, cambiando la propria esteriorità e cadendo nella schiavitù della droga per esorcizzare la gelosia così come Liberace frequenta i sexy shop per dare libero sfogo alla sessualità. E’tutta una serie di mancanze a stare alla base dell’agire dei due. Alla mancanza si reagisce << rielaborandosi >>, cercando anche nell’intimo di apparire << altri >> rispetto a ciò che si è. Abbiamo parlato di << cappa >> perché all’interno del contenitore i protagonisti del film devono muoversi procedendo verso una conclusione non scontata. Pubblico e privato, realtà che devono essere camuffate come gli anni che passano o i chili di troppo. Persino le cause della morte dell’artista, le indagini su ciò che lo ha ucciso, fanno parte di un gioco al massacro al quale nemmeno chi non c’è più può sottrarsi. Il grido di dolore di Soderbergh è assoluto e dolce;è la conclusione che sceglie, quasi a dirci che l’unica speranza è il lievitare, il dissolversi da quel mondo fatto di lustrini e paillettes.
IL CAST è da premio Oscar. Tra Douglas e Damon non sapremmo davvero per chi optare. La loro recita è umana ma spinta ai massimi livelli perché entrambi interpretano Liberace e Thorson senza mai cadere né nella macchietta né nella non credibilità. Matt Damon anzi fa della normalità un’arma a proprio favore e Michael Douglas che ha voluto a tutti i costi fare questo film mostra per l’ennesima volta di essere uno dei grandissimi. Tutti gli altri girano a pieno regime nel motore che il regista e lo sceneggiatore Richard LaGravenese hanno preparato a puntino. Rob Lowe è perfetto nella parte del medico così come non sfigura Dan Aykroid. Nel cast, interpreta la madre di Liberace, anche Debbie Reynolds. Difficile chiedere di più.
Voto:8/10