Nella terra dove dio muore
È un dio che muore quello di cui ci parla lo splendido Godland, nella terra di Dio, uscito da Cannes nel 2022 e nei nostri cinema proiettato nel 2023, del regista islandese Hlynur Pálmason. L’ho voluto recuperare perché raramente negli ultimi anni il cinema è riuscito a proporre riflessioni profonde capaci di sconfinare nella potenza e nella suggestione che in passato furono di Bergman o Dreyer e che oggi appartengono a pochi, al Leviathan del siberiano Zvyagintsev di sicuro-Leviathan: gli uomini dimenticati da dio di Zvyagintsev– a cui accomuno Godland più per l’aspetto esteriore, di fascino cupo che per l’intento sottilmente politico del film russo. In entrambi i casi, però, il rapporto tra fede e individuo è un tratto distintivo e nell’opera islandese la base di una storia che difficilmente gli amanti del cinema con la C maiuscola potranno dimenticare. Godland è anche un film furbo e al passo con i tempi; nonostante i suoi 143′ sa cambiare marcia, modificare ciò che ci si potrebbe attendere, ribaltare il prevedibile, sfruttando a piene mani l’epica western anche moderna- Michael Cimino docet-, trasportandola nella natura selvaggia, inospitale, affascinante delle terre più estreme dell’Islanda del diciannovesimo secolo, quando l’isola era ancora alle dipendenze della Danimarca.
Un viaggio in terra e dell’anima
Non è solo un viaggio contro la natura selvaggia, le intemperie, le privazioni, le fatiche quello che il pastore luterano Lucas compie per costruire una chiesa nella terra sperduta islandese. È un percorso di spoliazione progressiva delle proprie certezze, di fede che a poco a poco viene erosa -in una scena magistrale di delirio il protagonista invoca la sostituzione di dio con sé stesso-come se quella natura così ipnotica e inquietante-splendida la fotografia di Maria von Hausswolff- si trasformi nell’unica risposta che il globo terrestre possa dare all’individuo. Natura matrigna in cui gli uomini giostrano esistenze basate sull’incomunicabilità, dove le differenze di lingua e di nazione, danese e islandese-non a caso Pálmason utilizza sia nel titolo sia nei dialoghi il doppio linguaggio- siano soltanto forme verbali in grado di acuire le rispettive posizioni, senza alcun compromesso possibile da raggiungere. Godland gioca, siamo nella parte più western del film, sul contrasto tra il prete Lucas, la guida islandese Ragnar e il colono danese Carl. I primi due devastati dai dubbi: chi ormai ha perduto l’idea di dio, chi forse vorrebbe rifugiarsi nella fede per redimere il passato e chi alla fine opererà l’unica conclusione possibile per riportare il tutto secondo natura.
Finzioni fotografiche nel tempo che scorre
Pálmason,nell’incipit del film, crea finzione nella finzione:nei titoli appena successivi a quelli di testa indica nel ritrovamento di lastre fotografiche scattate nel viaggio di un pastore luterano l’idea di partenza della sceneggiatura di Godland. Un’espediente che serve al regista per giustificare e rendere ancora più opprimente il peso del tempo nel rapporto tra uomo, fede e natura. Il pastore Lucas si aggira per il mondo cercando di immortalare i propri compagni di viaggio, ripresi come se fossero << morti >>, rendere quelle immagini già gravate da un passato remoto e finito, donare quindi un senso di eternità contro cui nemmeno il tempo potrebbe nulla. E per contrasto verso il finale del film, Pálmason mostra la progressiva decomposizione di un cavallo nel corso delle stagioni, preludio a quella definitiva degli individui. Agli uomini non resta che questa assoluta impotenza. La macchina fotografica viene distrutta, il prete non ha più nulla da inquadrare perché all’uomo è negato il controllo del mondo.Per Pálmason questo potere appartiene solo al suo bellissimo paradiso infernale, dove la lava ricopre ogni cosa dopo un’eruzione, in cui i versi degli animali suonano ossessioni e i latrati di un cane impediscono che si celebri messa.
I conti con la storia della nazione
Godland ha anche un significato politico. Il regista è islandese ma ha studiato e si è sposato in Danimarca. Il regno danese per secoli colonizzò l’Islanda; la vicenda si svolge proprio a ridosso degli anni in cui il regno danese concesse una forma di autogoverno al popolo islandese. L’ironica conclusione del film, con il canto di un inno nazionale danese, evidenzia la criticità di relazione, la prepotenza della Danimarca che impose nel XIV secolo il luteranesimo e tentò di esportare i propri usi e costumi. È come se Pálmason abbia voluto fare i conti con la storia in un film dove tutto, compresa la lunghezza, è armonioso e in cui Elliott Todd Crosset Hove, il pastore Lucas, si rende protagonista di una prova magistrale-durante le riprese aveva perduto 12 chili-così come bravissimo è Ingvar Eggert Sigurõsson nel ruolo di Ragnar, duro, legato alla terra, cantastorie di incubi popolati da anguille in amore, e capace di improvvisi gesti di umanità. Coinvolgono anche Jacob Lohman, volto conosciuto per due film danesi importanti –Shorta, benvenuti nella zona d’ombra e Il Colpevole: film magistrale su colpa e riscatto– Victoria Camen Sonne e la figlia del regista Ida Mekkín Hlynsdóttir, alla quale spetta la battuta che racchiude l’essenza del film.