Dove non ho mai abitato, lo spietato melò di Paolo Franchi nel solco de La Spettatrice

ECCOLI di nuovo qui i portatori di quella tristezza soggettiva che Paolo Franchi aveva mirabilmente descritto nel suo film d’esordio La Spettatrice . Allora si era nel 2003. Sono trascorsi quattordici anni e, compreso questo, altri tre film distribuiti nelle sale per uno degli autori italiani più raffinati e intelligenti ma anche tra i meno citati e…sponsorizzati. Dove Non Ho Mai Abitato è un’evoluzione matura di quella opera prima. Cambiano le situazioni, l’anagrafe dei protagonisti, eppure per chi ha amato quell’opera di debutto e il successivo Nessuna Qualità Agli Eroi è impossibile non rivedere la cifra stilistica del suo regista. Evolutasi, raffinatasi ma sempre coerente con se stessa. Non c’è il disconoscimento delle prime esperienze. L’ansia principale di Franchi è ancora quella di sondare la relazione tra l’individuo e i propri sentimenti all’interno di una struttura psicologica in cui non è tanto importante il dato sociale che superficialmente viene mostrato quanto le gabbie esistenziali che ognuno di noi costruisce per difendersi e sopravvivere. Andrea Renzi, Barbora Bobulova e Brigitte Catillon erano ne La Spettatrice personaggi i cui destini, attraverso il sentimento si incrociavano ma che alla fine restavano incompiuti; ognuno si rifugiava nella sicurezza della ossessione, l’unica area percorribile per dare forma alla paura del vivere pienamente.Un atto di sopravvivenza necessaria e disperata.

IN DOVE NON HO MAI ABITATO Paolo Franchi ce li riporta a casa. Li rivediamo più maturi. Emmanuelle Devos non è altro che il personaggio di Valeria-Bobulova quattordici anni dopo. Di differente è che è figlia di un famoso architetto dalla cui personalità ingombrante ha cercato di fuggire sposando un ricco finanziere parigino, rinunciando alla carriera senza conoscere il vero amore. Una donna triste che ha accettato il tran tran della sconfitt e della paura di se stessa. L’incontro con l’allievo prediletto dell’architetto, Fabrizio Gifuni, non fa che consentire l’attrazione tra due fallimenti non riconosciuti, perché anche l’emergente dello studio d’architettura ha sacrificato la vita in nome dell’affermazione professionale, lasciando in disparte la sua parte più intima. E poi c’è il padre di lei, un meraviglioso Giulio Brogi , che nel più giovane architetto rivede ciò che avrebbe desiderato dalla figlia e di essa comprende il limbo esistenziale . È per questo che il suo personaggio diventa lo specchio in cui a turno l’immagine di tutti gli altri si spoglia. Emerge la presa di coscienza di non avere mai abitato il territorio del cuore. La cartina al tornasole di questo cambiamento è una villa: quella che Devos e Gifuni devono ristrutturare per una giovane coppia. Forse innamorata, forse già rassegnata. La conoscenza e l’interesse l’una per l’altro crescono con l’evolversi del progetto. Quella casa così diventa più un luogo mentale che fisico. La trasposizione di ciò che avrebbe potuto essere la vita e non è stato.

SEMBRA un melò e in parte lo è ma alla maniera spietata di Paolo Franchi che rivisita il genere costruendo dietro alla riflessione sul sentimento una ancora più profonda sulle gabbie mentali che ci attanagliano. Rispetto ai lucidi ” guardoni ” della vita de La Spettatrice qui cambia la consapevolezza. Ci sarà una scelta finale che determinerà il destino anche altrui proprio come in quel film del 2003. Ma non sarà più un’inazione semmai un’accettazione consapevole di uno status quo e per questo un punto di non ritorno.Un fallimento sì ma cosciente. Il film ha un limite: per chi si è cibato di riflessioni, letture e visioni sull’impossibilità sentimentale è abbastanza prevedibile nel suo svolgimento. Allo stesso tempo possiede la dote di una freddezza voluta: la camera non è mai incline al controcampo e mette sempre in primo piano i volti dei protagonisti; riesce a sfruttare ogni minimo e persino impercettibile cambio umorale dei personaggi. Attraverso questa ossessione del volto e per il volto Franchi rafforza il proprio melò. La sua è un’esplorazione delle nostre zone d’ombra che vengono fatte emergere ed esaltate dalla messa in scena.

Che il regista ami Torino e ne sappia cogliere la magica e a volte inquietante essenza è risaputo. Della città Paolo Franchi coglie le sfumature e come già accaduto nei suoi film precedenti scompone l’insieme per calare i suoi poveri umani al cospetto di un particolare, di un significante architettonico o paesaggistico. In questo modo riesce a consolidare il senso della solitudine dell’individuo, a provocare domande, a decifrare impotenze. C’è tanto silenzio nel film ed anche, quasi fosse un ossimoro scenico, tanta musica di sottofondo. Ci sono atmosfere cupe, oppressive, improvvise aperture alla luce. È un cinema costruito sui dettagli, sul particolare. Che riesce a essere personale anche trattando la storia più antica del mondo.

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