Da Bellocchio a Ceriello due modi di raccontare le mafie

L’apparente blasfemia cinematografica ha il vantaggio di permettermi di porre in relazione opere molto diverse l’una dall’altra, un film vero e proprio-come budget, dimensioni, interpretazioni-e un corto. Tra il quasi perfetto Il Traditore di Marco Bellocchio e L’Eredità di Raffaele Ceriello la separazione è una strada larghissima, che si perde a vista d’occhio. Il percorso intrapreso dal primo è all’opposto del secondo. Eppure tra le due opere, il film e il corto, c’è un comune denominatore: lo sforzo di trattare l’argomento <<mafie >>. Per Bellocchio, Il Traditore è una sorta di completamento di quella storia d’Italia che l’autore piacentino ha quasi sempre posto al centro della propria riflessione cinematografica, partendo spesso da un fatto di cronaca e dall’analisi successiva sui comportamenti dei propri personaggi. Un’ottica molto particolare priva della presunzione aprioristica di dover giudicare o insegnare ma efficace- e geniale aggiungiamo- nel giungere alla visione completa del problema. Bellocchio ne Il Traditore prende spunto da un preciso momento storico-la scissione cruenta che a partire dal 23 aprile 1981 portò all’eliminazione progressiva di Stefano Bontade e dei suoi alleati e all’affermazione dei corleonesi di Toto Riina- inserendo al centro del proprio racconto il personaggio di Tommaso Buscetta, il supertestimone più che superpentito che poi permise al giudice Falcone e ai magistrati palermitani di andare al cuore dell’organizzazione. Bellocchio ha bisogno di personaggi: Buscetta è come se fosse il suo Caronte. È colui che lo porta all’interno della mafia siciliana, nell’aula bunker, nei dibattimenti processuali, negli interrogatori, ricostruiti alla perfezione e mai romanzati. Ma allo stesso tempo il supertestimone è anche il simbolo della doppiezza di tutte le mafie; Bellocchio ne inquadra gli aspetti intimi, il carisma, l’intelligenza arguta, la concretezza, le fragilità seguendolo passo dopo passo in quel lasso di tempo che va dal 1980 all’anno della sua morte, il 2000. Buscetta diventa quindi ne Il Traditore il collante, la chiave umana che spalanca la porta, la richiude e la riapre, in una felice intuizione del soggetto in cui la descrizione del personaggio introduce la successiva coralità delle maschere mafiose e di chi dovrebbe perseguirle o giudicarle. L’operazione di Bellocchio è una felice commistione del privato che arriva al pubblico. E non poteva essere altrimenti, perché l’autore non è uomo cresciuto con la mafia sotto casa. È semplicemente un’artista che ha bisogno di uno strumento drammaturgico, in questo caso il personaggio, per allargare l’ottica. Quindi Il Traditore si trasforma ben presto- dall’indimenticabile incipit e dalla scena del ballo stile Gattopardo- in un teatrino vivente con i mafiosi al posto dei pupi, dove ciò che sembra assurdo e poco verosimile- movenze, ignoranza, volgarità- nella realtà è tutto fuorché uno stereotipo o un’operetta(si veda il repertorio dell’epoca per la conferma). In questo tripudio di certosina ricostruzione storica in cui Buscetta ci conduce, a giganteggiare è Pierfrancesco Favino, le cui unanimi lodi ricevute per l’interpretazione sono solo un piccolo tributo a una prova magistrale, di quelle che un attore deve inserire al primo posto del proprio curriculum professionale. Poche sono le cose negative del film. Forse qualche taglio avrebbe permesso una maggiore fluidità ma Il Traditore è una delle migliori opere italiane degli ultimi anni, in cui la mano di Bellocchio si vede anche dai particolari: la dimensione onirica-a volte troppo insistita-, il ricorso al confronto tra animali e uomini per caratterizzare le varie tipologie di mafiosi presenti nella storia-la iena, i topi- che sfiora quasi l’antropomorfo.

L’approccio di Raffaele Ceriello con le mafie, in questo caso la camorra, è invece all’opposto. Non più dal privato al pubblico. Ma dal pubblico al privato. A differenza di Bellocchio, il giovane autore campano è nato e cresciuto in un territorio in cui l’illegale e la violenza sono una costante. Ceriello è uno studioso di illegalità: ne approfondisce gli aspetti per cercare nel suo piccolo di risolverli e di indicare valori differenti ai giovani. Fare cinema è il mezzo anche sociale per dare un contributo, in piena sincronia col vivace movimento napoletano in cui si celano potenzialità artistiche che meriterebbero di essere supportate. Il suo nuovo cortometraggio L’Eredità si innesta con coerenza assoluta nella precedente produzione dell’autore campano( del suo Per Errore avevo trattatato qui http://guido.sgwebitaly.it/articoli/per-errore-la-tragedia-degli-altri-che-spiega-in-un-corto-la-camorra/). Ceriello rispetto a Bellocchio non ha bisogno di spiegare: la camorra c’è, fa parte del tessuto quotidiano della sua gente. È drammaticamente uno status quo che solo la presa di coscienza privata può scalfire. Quindi i suoi personaggi, in Per Errore le madri di assassino e vittima, sono devastati in partenza da questa condizione quasi primigenia. Ne L’Eredità la storia è differente: c’è un genitore morto ammazzato perché non ha voluto cedere un pezzo di terra, l’unica eredità che poteva lasciare al figlio Antonio. Questo ritorna a casa dopo anni di assenza, di frattura netta e totale proprio con il padre e la famiglia. L’incontro avrà un significato catartico: ci sarà una presa di coscienza, una nuova idea di unione, la forza della reazione. Ne Il Traditore, Bellocchio è uno di noi: racconta la mafia attraverso il materiale che ha a disposizione arrivando a un grande affresco italiano. L’Eredità, al contrario, ci pone il senso di avere le << mafie >> dentro al percorso esistenziale, dentro l’uomo, il suo inferno in terra. Una metastasi che miete vittime, disintegra le relazioni interpersonali, getta la gente nella disperazione. Ceriello è il poeta di questi indifesi ma come già accaduto in Per Errore non si limita a descrivere la tragedia, cerca di lasciare aperta la speranza che deve passare dalla presa di coscienza dell’individuo. È chiaro che il suo sia cinema sociale, in cui la finzione è al servizio di un bene che non è soltanto estetico o analitico. Rispetto al già ottimo e originale Per Errore, in questo nuovo film-per me i corti sono e restano film- l’impianto drammaturgico è più solido, anche perché c’è un respiro meno intimista e una maggiore costruzione scenica. Bravissimi gli interpreti, con la maschera tragica di Massimiliano Rossi-proprio lui da Indivisibili a Il Primo Re passando per Il Vizio della Speranza e Gomorra la serie- che scuote l’epidermide e le coscienze.

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