Una gioia per la mente e per gli occhi
Challengers è il film che consacra in modo definitivo Luca Guadagnino tra i grandi registi italiani. Non c’è proprio nulla, infatti, in questa sua ultima fatica che può essere contestato, criticato. Tutto rasenta la perfezione, a cui l’autore siciliano ci aveva già abituato con le opere precedenti sul fronte della pura estetica, destando ogni tanto qualche perplessità sull’evoluzione del contenuto. Invece in Challengers occhi e mente procedono di pari passo, non esiste nemmeno un secondo dei 131′ della sua durata capace di sollevare dubbi o perplessità. Perché all’interno del film troviamo l’armonia che ogni regista ricerca e spesso non riesce a creare. Challengers è un mappamondo di sensazioni; solo che Guadagnino sostituisce la cartina geofrafica con il divertimento, il gioco, la sfida, la crudeltà, la seduzione, i sentimenti, l’amore e l’odio, l’amicizia combinandoli con una estetica brillante e raffinata, un montaggio e musica da XXI secolo, inquadrature mai offerte in modo gratuito, perché ognuna di esse ha un significato ben preciso capace di arrivare in modo diretto allo spettatore. Il film ha un solo limite: viene proiettato in Italia forse nel momento sbagliato, dopo l’abbuffata degli Oscar e prima della kermesse di Cannes e nessuno ne ha colpa perché avrebbe dovuto aprire la Mostra di Venezia dell’anno passato ma lo sciopero di Hollywood ne impedì la partecipazione.
Il tennis come relazione
Challengers è un film in cui lo sport, in questo caso il tennis, va oltre al concetto di metafora della vita, ovvero confronto, duello, rivincita, sconfitta, esaltazione, depressione, giovinezza, decadenza. Il punto è che, lo dice il personaggio mirabilmente interpretato dalla sempre più brava Zendaya, il tennis è relazione. La sua magia risiede in quegli scambi che scandiscono un tempo sospeso, in cui nasce una correlazione tra i giocatori con l’annullamento di quella rete che li separa. Sono gli istanti, recita una battuta dell’attrice, che permettono all’uno di comprendere l’altro. È ciò che permette a Guadagnino e allo sceneggiatore Justin Kuritzkes di sfruttare il gioco per mettere in scena un ménage à trois in apparenza molto tradizionale, due amici, una ragazza, il tradimento, l’ambizione, il fallimento, in cui il campo da gioco è terreno deputato per una resa dei conti, per un finale di partita che può trasformarsi in un nuovo inizio e per un grande abbraccio, nel senso materiale del termine, con la vita stessa.
Come A Bigger Splash anzi no
Perché Challengers è quasi un proseguimento di Bones and All –Bones and All: nutrirsi di vita per scoprirla. È delicata la favola sentimentale di Luca Guadagnino– e Tashi, Patrick e Art non sono altro che cannibali sentimentali, ubriachi di vita e per questo mossi dall’ansia dell’esistenza. Così facendo il film si trasforma non in uno sterile spaccato di uno straordinario legame a tre, bensì nella crepitante esaltazione di una ritrovata arcadia, idea che spesso fa capolino nei film del regista siculo, diventato ormai un affezionato esploratore delle dinamiche interpersonali, della seduzione, dell’ingresso del desiderio a sconvolgere gli equilibri. Challengers ripropone, per esempio, tematiche simili a A Bigger Splash del 2015, solo che qui il trionfo è della leggerezza e dell’illusione della gioia di vivere ed in Challengers, sempre riferendosi ai film del recente passato, Guadagnino torna a riflettere sul potere femminile come accadde in Suspiria del 2018.
La bellezza, biglietto da visita del film
L’estetica di Challengers, lo abbiamo già scritto, è perfetta. Guadagnino e il suo tradizionale direttore della fotografia Sayombhu Mukdeeprom creano un autentico capolavoro dove ciò che potrebbe essere un spot senza soluzione di continuità si trasforma nella base stessa del film. Tutto è ripreso, fotografato, illuminato o oscurato come un insieme di quadri. Scene, per esempio, riprese da tre angolazioni differenti che si susseguono, campi che si restringono o si allargano, soggettive in cui stillano le gocce di sudore e la consueta indagine sul corpo alla Guadagnino, quella esaltata dal già citato-forse poco compreso-Suspiria, diventa centrale, parte integrante del discorso. Si nota poi lo studio minuzioso del gesto atletico del tennis, il senso della velocità della pallina, la carica esplosiva dei servizi, i muscoli che si tendono. Challengers è ritmo di sceneggiatura, scenografia,montaggio, fotografia, è divertimento dall’inizio alla fine anche grazie alla colonna sonora di Trent Reznor e Atticus Ross che con la mano aggiuntiva del tedesco Boys Noize è presente nello scandire ognuno dei tre set di un film dove si sorride e si avrebbe voglia di non lasciare mai la sala.
Un trio meraviglia dal grande futuro
Zendaya, qui anche in veste di produttore, Josh O’Connor e Mike Faist sono il trio meraviglia sul podio degli interpreti. Ognuno affonda nel proprio personaggio con naturalezza offrendo una prova recitativa di altissimo livello e che probabilmente li lancerà in modo definitivo tra i più richiesti sul mercato. L’attrice statunitense gestisce i suoi spasimanti con un navigato cinismo, esaltato dal crollo del proprio obiettivo nella vita. O’Connor e Faist riempiono lo schermo mostrando le differenze caratteriali e il legame profondo e indissolubile che li unisce. Sarebbero gli interpreti ideali nel caso Guadagnino accettasse l’invito dell’HBO per una trasposizione cinematografica a puntate di Le Schegge di Bret Easton Ellis, un romanzo stupendo-ve lo consiglio, c’è Ellis in stato di grazia– da cui in pochissimi come il regista palermitano saprebbero captare il senso profondo e rispettarne l’ambientazione glamour e noir della Los Angeles del jet set giovanile del 1981.Ma questo è un altro discorso. Ciò che resta è che Challengers, senza se e senza ma, è il miglior film italiano-anche se prodotto negli Usa- degli ultimi anni. Un capolavoro? Non spetta a me dirlo ma va molto vicino al concetto.