Un’opera preziosa, asciutta e coinvolgente
Ciò che da sempre fa di Antonio Albanese un grande attore è la sua maschera mai schiava di espressioni stereotipate sia quando viene utilizzata nel registro drammatico sia in quello comico. In Cento Domeniche, sua quinta prova da regista cinematografico, Albanese lo conferma. Non è mai fuori misura, interpreta per sottrazione e mai per accumulo dando un senso profondo a un film non banale, forse non perfetto, ma interessante e prezioso. Cento Domeniche è un’oasi in cui riflettere. Una discesa nel gorgo della disperazione in cui l’attore lombardo conduce lo spettatore passo dopo passo, con sobrietà, decoro, senza bisogno di scene ad effetto, senza necessità di caricare più del dovuto la tragedia di un uomo qualunque; con semplicità narrativa che si traduce in una positiva essenzialità per andare dritto al bersaglio.
Quando tutto crolla attorno senza colpa individuale
Il merito di Cento Domeniche-il lasso temporale in cui un dipendente riusciva nel secolo scorso a mettere da parte i soldi per costruirsi l’abitazione- è di riuscire con misura a creare una commistione tra l’aspetto pubblico, le banche che truffano i propri clienti convincendoli a effettuare investimenti poco chiari, e quello privato. Albanese e il suo cosceneggiatore Pietro Guerrera, affrontano il problema in perfetto equilibrio. Albanese è l’operaio anziano di una piccola azienda della provincia brianzola, un punto di riferimento per quella piccola comunità. Quando sua figlia annuncerà il matrimonio con il fidanzato, l’uomo chiederà alla propria banca di smobilizzare i soldi per pagare le spese dell’evento. Una sorta di realizzazione per il tornitore e un motivo di orgoglio. Il direttore di banca lo convincerà a firmare un investimento in azioni in cambio di un prestito, il che si rivelerà una truffa in piena regola che porterà il protagonista a perdere tutto ciò che aveva risparmiato in vita. Ed è proprio in questo che la sceneggiatura funziona, perché sarebbe stato troppo semplice e scontato mettere in primo piano la class action dei truffati, un paese intero, e trasformare il film in un manifesto. Invece questo non accade: Albanese lo lascia sullo sfondo preferendo giostrare sul dramma individuale. Il suo personaggio precipita in una spirale di disillusione che si trasforma in rabbia. È il profondo senso di ingiustizia che l’attore-regista privilegia. Lo fa attraverso un’interpretazione magistrale, eleggendo il suo Antonio nel simbolo di un’umanità a cui non viene nemmeno offerta la possibilità di reagire. È un uomo tradito, una persona per bene che vede sgretolarsi i valori su cui aveva basato la sua stessa esistenza, la propria dignità. È il senso di impotenza a permeare Cento Domeniche.
La parte finale meno efficace non rovina il film
Forse il limite del film sta nella sua parte conclusiva, molto logica e quindi priva di un colpo ad effetto. Non significa però che non riesca a cogliere nel segno e ad emozionare. L’appunto deriva da una questione di gusto individuale. Cento Domeniche resta un film validissimo, etico nel senso completo del termine per la capacità del suo protagonista(e regista) di coinvolgerci nella sensazione di aver non solo perso tutto ma di essere numeri. Una riflessione amara da cui non emerge alcun cenno di speranza e proprio per questo una denuncia che rimanda, sempre per la commistione di cui scrivevo prima, dal privato al pubblico. Ottimo il cast, in cui Albanese si circonda di alcuni amici e colleghi di vecchia data, e di Giulia Lazzarini, la miglior Winnie della storia teatrale italiana in quel magnifico e indimenticabile Happy Days di Beckett per la regia di Giorgio Strehler-averlo visto è privilegio dell’anagrafe- che parla con lo sguardo nell’intensa parte della madre del protagonista.