CHE <<La grande bellezza>> fosse un film destinato a dividere lo si era compreso già nelle giornate di Cannes. Stessa cosa sta verificandosi tra il pubblico non <<togato>>, con i comuni spettatori, alcuni dei quali escono dalla visione dell’opera di Paolo Sorrentino ipnotizzati ed entusiasti ed altri, come noi, che restano freddini pur riconoscendo nell’autore la classe del grande campione al quale manca sempre qualcosa per diventare un asso. Gira e rigira, infatti, non c’è nella cinematografia di Sorrentino quello che invece si trova in Matteo Garrone: il cambio di passo, di argomenti, di situazioni, di problematiche. Nel primo vince sempre più la forma rispetto alla sostanza e <<La grande bellezza>> ne è la riprova. Sia chiaro: esistessero nelle sale 365 film come questo da visionare ogni giorno! Stiamo parlando di lana caprina ma i gusti sono individuali, le sensibilità pure. Non si può piacere a tutti e a me il film non ha fatto impazzire, non mi ha fatto strappare i capelli, non mi ha suscitato emozione. Sono troppo cattivo a definirlo noioso?
LA REALTA’ è che sono vecchio. Sono cresciuto con il mito di <<8/2>>, ho amato <<La dolce vita>>, mi ha appassionato persino <<Giulietta degli spiriti>>, da ragazzo venivo spesso accusato di avere tendenze <<cannibalistiche>> nei confronti di Federico Fellini da tanto mi piaceva. Ho amato <<Viaggio al termine della notte>> che è la base della narrativa contemporanea e come il personaggio di Jep Gambardella, interpretato ahinoi da un Toni Servillo icona di sé stesso e sempre uguale a Toni Servillo- iddio salvi Ciprì che in <<E’stato il figlio>> lo fa recitare anche da immenso attore- sono uno scrittore di un solo mediocre romanzetto che in definitiva anch’esso cercava di cogliere il senso di vacuità del contemporaneo e forse del nostro mestiere nel mondo. Voglio dire che <<La grande bellezza>> è un caravanserraglio del deja vu e del già detto, scritto, recitato e interpretato. Una copia della copia, niente di nuovo sul fronte occidentale, nulla di sconvolgente nella Roma capoccia allegoria dell’Italia e del mondo messa in scena-e aggiungo magistralmente- da chi potrebbe essere il numero uno, mi riferisco a Sorrentino, e invece come il suo attore di riferimento gigioneggia con i suoi tradizionali e a volte abusati <<ralenty>> o con quei giri di macchina che ormai fanno parte della sua estetica, da <<Le conseguenze dell’amore>> a qui.
Il PROBLEMA de <<La grande bellezza>> è appunto questo: ce ne andiamo a spasso con Gambardella, balliamo assieme a un variopinto mondo di tragici imbecilli, ci specchiamo nella splendente decadenza dei palazzi, nel crollo della nobiltà che ora si può noleggiare a 250 euro a sera più auto , nell’astuzia dei porporati, nella superficialità dilagante per poi sentirci dire che forse sarebbe meglio ritrovare il senso della vita attraverso il recupero delle nostre radici. Sorrentino procede per citazioni: cinematografiche, letterarie, la Recherche proustiana è uno dei leit motiv, ma altro non fa che adeguarsi a esse stesse. Gli manca il colpo finale. La sua umanità è tale dall’inizio alla fine, è così perché è così, il travaglio di colui che ci conduce in questo inferno del nulla travestito da paradiso resta costante, mai una scelta di campo. Accettazione del destino, con lapalissiana considerazione finale sul senso della vita e rimando al primo amore. Così si ha l’impressione di essere stati sedotti e abbandonati, di avere visto un magnifico-perché di bellezza allo stato puro si tratta-videoclip lungo 160 minuti oltre il quale, però, resta ben poco. E allora hai voglia di intraprendere un viaggio, infilarti oltre lo schermo, forarlo per vedere cosa c’è, quali carte sono disposte sul tavolo, capire dove inizia il film e dove invece c’è la vita. Forse è proprio questo sentimento di vuoto radicale che ci voleva donare il regista?
DOPO il bastone però viene il momento delle carote che pur non piacendomi particolarmente dicono siano quasi coccole seguenti a una sfuriata. Se il film <<sconfinato>> nell’ambizione ha molti…confini ha anche, bisogna dirlo, parecchi pregi. Non è insapore, resta dentro. Il suo variopinto campionario di freaks urbani e borghesi- il direttore della rivista per la quale Gambardella scrive è una nana e appare la più normale di tutti- coglie con estrema precisione il bersaglio. Ad ogni stereotipo corrisponde una scelta azzeccata dell’interprete di riferimento. Sono parti, ad eccezione di qualcuna, di brevissima durata, un paio di scene e via ma che segnano, non sfuggono. C’è quella di Carlo Verdone, uno scrittore che si porta appresso il senso del fallimento e della sua inadeguatezza, quelle di una bravissima Sabrina Ferilli, figlia di un proprietario eroinomane di night e spogliarellista ammalata, del commerciante di giocattoli Carlo Buccirosso, e di un gruppo compatto di sodali e festaioli con in testa un’intensissima Galatea Ranzi, la migliore fra tutti nella parte dell’intellettuale radical chic sorretta dal partito, Pamela Villoresi e via dicendo. La presenze, prestigiose, sono tante. Gli assi maschili provenienti dal mondo teatrale hanno in Roberto Herlitzka la punta di diamante. E colpisce nella sua parte la splendida Isabella Ferrari, altro stereotipo, onesta con sé stessa, che ama postare le proprie foto su fb. Nel film si ride spesso e volentieri. Le battute funzionano, certe scene, pur se telefonate, pure. E poi c’è Roma, quella inesistente, quella celata all’occhio di chi ci vive. Una Roma dove non esiste gente, perfetta nella sua architettura, splendida, fotografata da Luca Bigazzi come in pochi potrebbero. Purtroppo non è la Roma reale. E’quella della quale si parlava negli Anni’60. Non è certo quella di Pasolini, non è quella dei quartieri o dei dormitori suburbani. E’la Roma delle terrazze <<radicalchiccheggianti>> che forse non esistono più se non nel mondo del regista. E’Roma priva di Roma. Splendido contenitore del nulla.