Hammamet di Gianni Amelio è un film di difficile interpretazione: non si riesce infatti a comprendere che cosa sia. Perché non è un biopic sulla figura del politico italiano simbolo della Prima Repubblica, non è una riflessione politica o la rivisitazione di quei giorni e se è dramma in pochi se ne accorgono. Per farla breve senza la magistrale interpretazione di Pierfrancesco Favino, Hammamet scorrerebbe senza sussulti dall’inizio alla fine, coinvolgendo ben poco gli spettatori, non concedendo ad essi nemmeno il beneficio della riflessione su battute e personaggi. O forse è lo spettatore medio-sarei sempre io per la precisione- che pur avendo vissuto quella stagione da un osservatorio privilegiato- il mondo del giornalismo televisivo milanese- a non aver afferrato il senso dell’operazione. Nel caso chiediamo venia ma troppi fattori condizionano non in positivo il film dell’autore italiano.
È difficile parlare di un re sconfitto. Affrontare poi il caso Craxi e ciò che simboleggia significa addentrarsi in un territorio fin qui mai approfondito pienamente, spesso celato non si sa se per timore di ammettere gli eccessi giudiziari dell’epoca con allegata l’ansia giustizialista che scatenò, di mettere a confronto una figura in ogni caso ingombrante per sapienza e cultura politica con ciò che sta passando il convento contemporaneo o per tentazione di prendere le difese di un uomo che in ogni caso pagò le proprie colpe con un vero e proprio esilio per sfuggire a certa condanna. Si comprende quanto Gianni Amelio e il suo cosceneggiatore Alberto Taraglio abbiano cercato, per umiltà e pudore di uomini d’arte e non di storia, di tenersi il più lontano possibile da questi aspetti. Infatti il film accenna ma mai ha il coraggio di affrontare di petto la riflessione sull’uomo simbolo di un’intera classe politica. Così Hammamet, per chi sperava in altro, perde fin dall’inizio una delle motivazioni sottintese dal titolo e dal riuscitissimo incipit che infatti è una delle parti migliori del film, assieme alle scene oniriche che precedono il finale.
Ma i re o gli imperatori scacciati dal proprio regno sono anche motivo di straordinarie storie, simbolo della miseria umana, della caducità del potere, del complesso rapporto dell’individuo tra ciò che è stato e ciò che è diventato. Craxi di Hammamet dell’uomo un tempo più potente d’Italia mantiene la fierezza, una certa arroganza, la lucidità di visione politica che sfiora il cinismo, affidate alle confessioni rese alla telecamera di un ragazzo figlio di un amico socialista suicida. Ma sono spezzoni, attimi, sussulti. Non c’è alcun palpito shakespeariano nel film. Craxi si aggira per i prati della villa e nella cittadina che lo ospita dispensando dolcezza nei confronti dei bimbi. I tormenti sono piuttosto della figlia- qui ribattezzata Anita- nel cercare di accudire il padre, di carpirgli i sentimenti. Per il resto il subbuglio interiore che dovrebbe devastare il personaggio non risale mai in superficie, non esplode. Resta tutto dentro ai sogni del protagonista o nel suo sguardo, nell’incapacità-voluta dagli autori-di relazionarsi in modo normale con il figlio. L’uomo di Hammamet si trasforma a poco a poco in un vecchio al tramonto della vita e il luogo che lo contiene in un limbo di semplice sopravvivenza.
Su tutto questo giganteggia, per fortuna, Pierfrancesco Favino. La sua non è un’interpretazione. La definirei piuttosto una sovrapposizione, una copia vivente di Bettino Craxi. È l’attore romano che tiene a galla il film, che se ne impossessa non sfuggendo però a questo mantenersi sempre a metà strada della sceneggiatura tra il molto timido tentativo di analisi dell’epoca-affidato però ad argomenti scontati- e il ritratto di un re privo del proprio trono. Con il risultato che mentre il sole tramonta su Hammamet la noia sorge, come la luna piena, in sala proiezione.