ESISTE UN FILO nemmeno troppo invisibile tra il cinema cileno degli ultimi anni e il mondo della musica con relativi stereotipi di tre e quattro decenni addietro. << Tony Manero >> di Pablo Larrain prendeva spunto dal personaggio di John Travolta per narrare una strepitosa quanto drammatica allegoria del Cile sotto la dittatura di Augusto Pinochet; la musica- meglio il titolo della canzone di Umberto Tozzi – torna in ballo in Gloria di Sebastian Lelio. Non c’è da stupirsi: quelli sono gli anni che per il Cile hanno rappresentato la discesa all’inferno, la fine della speranza, l’inizio di una lenta e progressiva accettazione formale dello stato delle cose sotto la quale covava l’ansia di libertà, l’apnea esistenziale che poi permise, come mirabilmente descritto da Larrain stesso in << No >> di uscire dalla dittatura per giungere alla democrazia. Così anche Gloria si inserisce nel filone, sebbene venga travestito dal proprio regista, da commedia ironica e brillante sulla crisi di una cinquantaduenne separata e madre di due figli. Il segreto del successo di pubblico e di critica del film, infatti, sta tutto nella leggerezza con la quale Sebastian Lelio dipinge la propria eroina e il contesto psicologico nel quale vive.
Gloria sembra girare a vuoto: entra nei locali da ballo dove suonano musica della sua giovinezza frequentati da gente come lei, single, separati fuori tempo, più disperati che convinti. Ne esce con qualche conoscenza per ritrovarsi irrimediabilmente sola nel suo letto alla ricerca di un sonno sempre disturbato dalle escandescenze di un inquilino psicologicamente devastato che vedremo solo nel prefinale. I figli sono distanti: non rispondono al telefono o sono alle prese con problemi più grandi di loro. Una gravidanza, un abbandono. Gloria va avanti in ogni caso. Non si ferma di fronte a nessun ostacolo e incontra un uomo al quale forse offrire tutto ciò che le resta della propria femminilità, del proprio cuore. Uno che sembra lei ma che in realtà è il suo opposto. Come un’ultima scommessa sentimentale la vita di questa ordinaria eroina cinquantenne si riempie della figura di Rodolfo indeciso sul dove andare, sul cosa fare della propria vita. In preda ai rimorsi, agli obbligi morali, alle titubanze. A poco serviranno gli sforzi di Gloria per liberarlo dalle proprie paure. Attorno a questo canovaccio si snodano i personaggi collaterali: i figli di Gloria, la sua domestica, il vicino di casa e il suo gatto,l’ex marito che Gloria non vede da tredici anni, la famiglia di un sociologo. Tutti che paiono in perenne stato di sospensione tra ciò che era il passato e un presente che non riescono ben a definire. Ci sono quindi le non scelte,i rimorsi di alcuni, i tagli drastici alle situazioni di altri e il movimento continuo di Gloria che è interprete e allo stesso tempo proprio terzo occhio, conscia di ciò che è ma non doma, non disposta all’arrendevolezza.
Il film corre dunque su un asse in cui la fotografia nervosa tipica della cinematografia cilena si alterna a lunghi primi piani della protagonista con Santiago sempre sullo sfondo, alle cene, agli incontri conviviali tra amici e parenti quasi fossimo in un’opera a metà strada tra Mike Leigh e un film francese. Dalle labbra degli attori non esce una sola frase di circostanza o una banalità grazie a una sceneggiatura molto curata, capace di mutare ritmo in sincrono con le inquadrature e con le situazioni che si vogliono proporre. Rispetto ai film di Pablo Larrain, qui in veste anche di produttore, in Gloria la musica scandisce gran parte dell’opera, proprio per accompagnare gli attori nel loro cammino. E’musica che rompe il silenzio della solitudine e che spazia da una simpatica versione di Aguas de Março, a musica cilena contemporanea, dalla rivisitazione di Mahler all’originale di Umberto Tozzi che chiude il film e che prima di allora non si sente mai. Gloria si aggrappa a sé stessa, non precipita, non crolla, resiste, non ha nemmeno bisogno di rialzarsi. E’un inno alla vita e alla forza. E’metafora di una nazione, forse di un continente intero, che non si rassegna e che è pronto, al di là delle proprie contraddizioni, a donarsi ancora.
E’chiaro che un film del genere per reggere e sprigionare la propria forza abbia bisogno di interpreti adeguati. Paulina Garcia è Gloria. E’una donna che osserva il mondo con lo sguardo ironico dell’intelligenza, che sa passare da espressioni di pura comicità ad altre cupe, pensierose. Le basta uno sguardo per far comprendere a chi segue ciò che le passa per la testa, il momento che sta vivendo. Non è un caso che all’attrice, classe 1960, sia stato assegnato il riconoscimento come miglior interprete al festival di Berlino del 2013. Un premio più che meritato proprio per la varietà e la forza in cui sa virare scena dopo scena. Non è solo il protagonista. E’anche il motore stesso del film, la base dalla quale partire. Bravo comunque tutto il cast e ottima la regia, controllata, mai preponderante, senza il vezzo di dover per forza offrire un’impronta da lasciare ai posteri. Una caratteristica comune a tutta questa leva di giovani registi cileni che mettono il cinema al primo posto e che sta diventando il fenomeno più interessante degli ultimi tempi. Su Larrain– del quale questo blog recensisce con regolarità tutti i film- ci siamo già sprecati in applausi. Di quell’altro geniaccio di Leon Erràzuriz, autore di Mala Leche, sorta di Gomorra cileno ben prima del film di Garrone attendiamo notizie. Non vorremmo si fosse perso dopo l’esperienza americana.
Voto:7,5/10