Negli Anni’60 l’Andalusia era un agglomerato di case accatastate come legna, qualche fognatura a cielo aperto, gitani che ti fermavano per l’elemosina. In Spagna c’erano poche vetture, quasi tutte Seat di produzione nazionale, e il ricordo delle mie gite erano gli sbuffi puzzolenti e scuri degli autoarticolati. La gente si muoveva in moto, la vita costava niente, si arrivava là e ci si sentiva padroni del mondo. Stavano bene i burocrati e gli uomini della nomenklatura franchista. Essere militare o poliziotto rappresentava un porto sicuro in un mare ondulato. Poi qualcosa cambiò Addio alla dittatura, comunque più illuminata di quanto non si voglia far credere, passaggio alla monarchia, la ricostruzione, l’arrivo degli investimenti, soprattutto americani. Negli ’80 l’Andalusia cambiava già volto: a jerez assieme ai Gitani, spuntavano i primi locali, le prime case fatte come dio comanda. Negli Ani’90 Jerez de la Frontera si era trasformata e come quel posto tutto il resto del paese. Oggi la Spagna ha infilato l’Italia e corre lontano. Lo sta facendo la Grecia, lo ha già fatto l’Irlanda, intesa come Eire, un altro posto dove capitavo spessissimo per ragioni di studio negli anni’70. Noi no, siamo in fase di precipizio. Si dirà che è un problema politico. No, è un problema di italianità, di cultura. di struttura mentale. Un governo – quello odierno è letale nella sua composizione- per quanto volenteroso, non può andare contro i troppi, gli eccessivi status quo che ci incarcerano all’immobilità. Abbiamo pessimi governi perché siamo pessimi cittadini. Fingiamo di essere sani, come diceva Gaber, ma non lo siamo. La flessibilità del lavoro, ovvero una ricchezza, un’apertura a esperienze sempre diverse, si è trasformata in precariato. Siamo precari perché non si vuole creare un mercato. Nella mia professione, per esempio, agli editori puri, oggi inesistenti, si sono sostituiti grandi gruppi e a seguire piccole schiere di finti imprenditori, in realtà speculatori dell’oggi senza progetto per il domani. Assumono, licenziano, si affidano a dilettanti allo sbaraglio di poco o nessun spessore professionale- massima resa per l’oggi, nessuna spesa – chiudono gli spazi a chi vale. E chi ha un posto fisso blocca, per mafiette sindacali, eventuali ingressi, eventuali infiltrazioni. La più grande industria italiana per anni ha scialacquato il proprio core business trasformandosi da costruttore di auto a equilibrista finanziario. Qualsiasi cambiamento o modifica o destrutturazione di queste impalcature sono impediti dagli interessi corporativi di questo o quell’altro. Si difende tutto, dalle pensioni ai privilegi, non si costruisce nulla. Si leva e si riconcede alla prima protesta. Si permette a chiunque rompa i coglioni alla gente di rompere i coglioni, salvo poi vessare su tutto ciò che è inutile e marginale. Facciamo pena nei servizi, nelle strutture, nelle infrastrutture, negli stipendi, nell’accesso alle professioni. Il credito al consumo è la base della quotidianità. Siamo ricchi nei debiti, nella corruzione, nei poteri falsamente occulti – a volte vorrei mandare affanculo Montesquieu- mafia e n’drangheta sono le aziende più floride. L’Andalusia è oggi magnifica e un buon posto per viverci. La Calabria peggio di vent’anni fa. Mio padre, negli anni’60, si incazzava perché non avendo tessere di partito non gli davano il primariato che gli sarebbe spettato per titoli, capacità e diritti. Se fosse vivo si incazzerebbe anche oggi. Intanto chi giocava alla rivoluzione nel 77, questi grandi soloni libertari, bombaroli, capipopolo, sono tutti saldi sulle loro poltrone, le stesse che volevano spazzare e incendiare. E qualcuno ci vorrebbe far credere che questa non è l’Italia e che non naufragheremo.