IL CINEMA sta cambiando; non so se ce ne accorgiamo. La ricerca si sta spostando più sull’immagine che sui contenuti. Così vengono considerati maestri anche coloro i quali sanno tradurre il poco da dire in modo magistrale. È una breve considerazione giunta dopo la visione di Roma, il film di Alfonso Cuarón vincitore della Mostra di Venezia che per tre giorni è stato in sala-ma ci tornerà presto- esaltando critici, spesso il pubblico e rinfocolando le inutili polemiche sul caso Netflix nelle vesti di produttore. Il mio problema-ora-è cercare da spettatore medio, senza nessuna spocchia, di riflettere su un’opera che si presta a un’analisi doppia. Quella pragmatica, giudicare cosa abbia voluto trasmettere l’autore messicano, e quella epidermica, ovvero quale sia stata la condivisione sensoriale del film. Mai come in Roma la dicotomia tra la sostanza-il contenuto- e la forma, l’involucro estetico che lo riveste, è accentuata. Se dovessi basarmi sulla prima casserei Roma come la consueta narrazione, senza alcuna novità drammaturgica o introspettiva, di ciò che siamo stati e del perché siamo diventati quelli che siamo oggi. E non importa che Cuarón sposti l’epicentro dei suoi giorni messicani utilizzando invece che se stesso quella che era la governante della sua famiglia borghese. È un espediente narrativo per raccontare con il terzo occhio un percorso metaforico non solo limitato al contesto familiare ma allargato alla storia del Messico degli Anni’70, quello della strage El Halconazo del 10 giugno 1971, dei mondiali di calcio del 1970, delle differenze sociali, delle donne come fulcro e ultima speranza per tenere unito un mondo allo sfascio, dove gli uomini, intesi come maschi, non ci fanno una bella figura. Ripeto però che in questo nulla è nuovo, nulla è inedito, nulla è rivoluzionario. Anzi siamo in pieno romanzo tradizionale, volendo essere cattivi quasi d’appendice, con la serva sedotta e abbandonata, figli perduti, mariti che scappano, madri che prendono faticosamente in mano le redini di chi è rimasto, ovvero la famiglia, e sullo sfondo, pesante come una cappa, l’altro volto di un Messico che non è cambiato in nulla da quei giorni infausti. So di essere controcorrente e me ne pento. Ma amo troppo i romanzi di Guillermo Arriaga– coautore e non sceneggiatore dei primi film di Inárritu-, per farmi condizionare dalla rivisitazione di una piccola storia familiare che con tutto il rispetto Roma è.Questo è il giudizio del mio lato pragmatico, dove il 4 deve essere somma di 2 e non può esistere altro.
CAPITA però che uno vada al cinema a vedere Roma di Alfonso Cuarón, autore per il quale non mi sono mai stracciato le vesti, e resti incastrato nella forma. Che trascorra le oltre due ore del film con la bocca aperta di fronte alla magnificenza delle immagini. L’epidermide, la pancia,i sensi e tutto il resto inziano a coordinarsi, a procedere di pari passo scena dopo scena, come l’acqua che scorre in continuazione in questo film, seguendo il suo divenire. Accade anche il momento della lacrimuccia di cui non comprendi il motivo per giungere alla fine alla domanda fondamentale: in quale maledetta razza di opera mi sto trovando? In una boiata d’autore o in un capolavoro? Allora cambia l’ottica, si modifica il giudizio. La storia resta ben poca cosa. Quella narrata nel soggetto. Ma quella tradotta in immagini e per immagini diventa contenuto. Roma così si tramuta in un’esperienza sensoriale, in un nuovo modo di approcciarsi al cinema e di viverlo. Cuarón riesce in tutto questo mettendo in una sacca la storia stessa del cinema, rivisitandola e mostrandocela sotto una luce nuova,che trae la propria forza da un bianco nero luminoso ed evocativo. C’è Fellini, c’è tanto neorealismo, c’è la potenza della parte che precede la conclusione del film che da sola lo vale tutto. Dalla scena in cui Cleo, ovvero la serva, e la nonna di casa escono per andare ad acquistare una culla per il futuro nascituro fino alla fine, Roma si trasforma in uno dei film più belli degli ultimi anni. Di una energia immensa, di una tragicità che è un pugno allo stomaco quando a Cleo si rompono le acque nel momento in cui la polizia inizia a caricare gli studenti, a rincorrerli nei negozi, a ucciderne 120. Il tremore della nonna, le doglie di Cleo, l’unione delle due donne, il rumore degli spari circondano chi osserva, lo catturano ed è come essere lì, in cerca di salvezza dalla follia umana di una nazione che da sempre regola i propri conti con la forza, il sopruso, la prepotenza, la violenza. Tutto ciò che in precedenza era stato solo accennato- splendide le immagini delle esercitazioni marziali dei Los Halcones – si mostra e Roma prende un’altra strada, giocando sugli accadimenti della storia messicana e della famiglia. Il film diventa una sinfonia perfettamente accordata che raggiunge il punto più alto in una << forzata >> gita al mare, dove le onde a poco a poco gonfiano l’oceano in un deserto d’acqua che pare sterminato e in grado di sommergere ogni personaggio e ognuno di noi che siamo in sala. Da lì ripartirà un nuovo inizio per una storia non necessariamente diversa ma in cui ogni protagonista avrà un’ottica esistenziale e un approccio alla vita modificato.
L’ACQUA E L’ARIA sono gli elementi caratterizzanti Roma già dalla prima scena, una lunghissima sequenza in cui dal liquido si riflette l’immagine di un’aereo che sorvola Città del Messico. Su quelli Cuaron costruisce il personale album dei ricordi suoi e di una generazione, la sua, molto vicina alla mia. È l’allegoria del destino dell’uomo, costretto a vivere tra terra e cielo, a metà sempre tra suolo e aria, tra terreno e sogno, tra sporco da pulire e spazi infiniti. A volte Cuarón si perde in lungaggini, a volte si fa prendere dall’ansia retorica con scene esteticamente bellissime ma del tutto inutili ai fini dello script, dai simboli di facile riconoscibilità e traducibilità, ma in altre riesce a donarci una magia che difficilmente dimenticheremo. Riuscendo appunto nell’impresa di dare forza alla forma per trasformarla in contenuto. Roma è un film spartiacque soprattutto per questo. E va assunto così. Può piacere solo se si è disposti a esserne travolti. Io lo sono stato.