DELIZIOSO: basterebbe questo aggettivo per definire l’ultimo film di Wes Anderson <<Moonrise Kingdom>>, presentato in anteprima alla giornata inaugurale del Festival di Cannes ma giudicato da molti recensori e critici con una certa freddezza. D’altronde fa parte della storia personale del regista americano non essere del tutto accettato. Gli si riconoscono intuizioni geniali nella scenografia e la precisione dei dettagli, la sicura fantasia, ma gli si rimproverano l’artificiosa ricerca dello spettacolo fine a sé stesso e una scelta monotematica degli argomenti. <<Moonrise Kingdom>> è giunto già da un mesetto sui nostri schermi a distanza di anni dal non perfettamente riuscito <<Il treno per Darjeeling>>– dove la parte migliore era il corto di incipit <<Hotel Chevalier>>– e il curioso film d’animazione <<Mr.Fox>>, al quale <<Moonrise Kingdom>> in qualche modo si ricollega. Due film che possono essere piaciuti o meno- è dura la vita di un autore che ha realizzato <<I Tenenbaum>>- ma che hanno confermato lo straordinario talento di un autore non banale, riconoscibile di primo acchito. Basterebbe osservare la scena iniziale di <<Moonrise Kingdom>> per accorgersi della mano di Anderson. C’è una carrellata che passa in rassegna in orizzontale le stanze di una villa, quasi fosse una di quelle <<casette>> da regalare ai bimbi, dove il contenitore, inteso come protezione, in realtà è un esploso, di modo che chi osserva possa notare tutto ciò che dovrebbe essere celato. Vediamo un ragazzino preparare un giradischi, inserire un vinile ed ascoltare una lezione di musica che parte da Purcell per arrivare, attraverso la spiegazione di Britten, alla scomposizione dei vari strumenti musicali. Ci sono poi i tre fratelli assieme, una ragazzina con un gatto appresso e un binocolo, un genitore che medita sdraiato al piano superiore e la madre che sta facendosi toiletta. E poi arriva il personaggio narrante, di collegamento, che spiega dove siamo, che cosa accadrà mentre alle sue spalle passano le immagini dell’isola nella quale sarà ambientata la scena. E anche in questa breve descrizione c’è il concetto di assenza temporale. Siamo su un’isola. Ma il nostro presente è nel 1965 e il nostro futuro sarà l’arrivo di un uragano. Come in <<Mr.Fox>> schemi e piantine cartografiche illustrano meglio la fisica di quei luoghi. Nella quale vive la famiglia Bischop, quattro figli, tre maschi e una ragazza, quella del binocolo che osserva lontano. E dove si è accampato un gruppo di scout capitanati dall’insegnante di matematica Ed Norton. A poche miglia di distanza dal molo dell’isola si trova la stazione di polizia, che in realtà è occupata dal solo in Bruce Willis e da una telefonista.
Sembra tutto bello, luminoso, splendente. Natura incontaminata, antichi sentieri indiani di misteriose tribù, vegetazione rigogliosa. L’isola del tesoro. Ma ciò che vediamo non è nella realtà. Di fronte a una natura così ospitale si ergono i drammi interiori di ognuno dei protagonisti. Non c’è felicità nel luogo incantato dove Wes Anderson ci sta conducendo. Basta pochissimo per infrangere la quiete e forse la monotonia. Basta uno scout orfano che fugge dall’accampamento, basta una figlia che scappa dalla villa per scoperchiare, proprio come accade nella carrellata sulla casa, ciò che manca. Così nasce la storia, la fuga d’amore di due adolescenti alla scoperta di un mondo nuovo per assaporare il senso della libertà e soprattutto per rendere possibile ciò che appare impossibile. E di conseguenza ognuno dei vari personaggi, i genitori, il capo scout e il poliziotto, si denudano nelle loro fragilità umane mentre vanno alla ricerca dei ragazzini scomparsi. C’è chi si sente rifiutato per il suo essere differente e senza famiglia e non teme di passare all’azione, Sam- Jared Williams, chi nel proprio nucleo avverte di essere un corpo estraneo e oppresso, Suzy-Kara Hayward, chi è disilluso, Sharp-Bruce Willis, chi non regge il peso del matrimonio e sogna altro, Laura-Frances McDormand, chi crolla nel fallimento individuale attraverso il silenzio, Walt-Bill Murray, e chi non è mai cresciuto nonostante la ricerca del comando,Ward-Ed Norton. Ebbene tutti costoro dovranno fare i conti con l’esplosione dei parametri nei quali vivevano. Nulla, da quando Sam e Suzy si danno alla fuga, sarà più come prima. Gli <<adulti>> a poco a poco compiranno un loro percorso verso l’umanità perduta, imparando la lezione impartitagli dagli indomiti ragazzini.
Potrebbe essere una trama perfetta per un film drammatico. Invece i registri battuti da Wes Anderson sono l’assurdo, l’inverosimile che procurano una visione leggiadra da sorrisi intelligenti e non grevi. Anderson dilata all’ennesima potenza una storia all’apparenza semplicissima, fa proprio come i suoi amati musicisti-qui la colonna sonora è fondamentale per la comprensione del tutto- mostrandoci sempre ad ogni inquadratura scena e controscena, ciò che è oggettivo e ciò che è simbologia. Il tutto e il particolare, il singolo, il gruppo di singoli. I simboli. Certo anche qui esiste la famiglia come in tutti i suoi film precedenti;esistono i rapporti di forza, l’oppressione, l’incomprensione, il non accorgersi degli altri, l’affannosa ricerca di ciò che siamo e i dubbi o le speranze su dove andremo. Ma non è un peccato, non lo si può accusare di <<ripetere>> sempre le stesse tematiche. E’proprio degli autori. E’il film che va visto nella propria interezza all’interno di un quadro complessivo dove questi temi sono preponderanti rispetto agli altri. Perché, sembra dirci Anderson, la creazione del caos è necessaria per liberarci dai peccati originari, per raggiungere le nostre consapevolezze. Diventa quindi del tutto naturale, in <<Moonrise Kingdom>>, che le scomposizioni alla fine finiscano per comporre. L’uragano distruggerà sentieri e baie ma porterà sementi alla natura, offrirà nuova linfa. La disgregazione della famiglia porterà a un nuovo ordine, a nuove relazioni perché la fuga di Sam e Suzy è sì d’amore ma soprattutto è una fuga per la vita. Certo c’è anche una considerazione amara dietro il discorso di Anderson: raggiunta l’armonia nulla impedirà che in futuro per riagguantarla sia necessario scomporla, nel momento in cui situazioni, scelte personali, destini tornino a incancrenirsi. In fin dei conti le allegorie tragicomiche di Wes Anderson ci parlano di vita e non di ipotesi. Il suo cinema è come il binocolo di Suzy: da usare anche da vicino per mirare meglio all’essenza.
Nel tripudio visivo, coloratissimo, dove alcune inquadrature paiono quadri di Edward Hopper , l’azione scorre velocissima e senza pause. Si sorride per tutto il tempo con gli attori che non sbagliano nulla. Gilman e Hayward, i ragazzi in fuga, sono perfetti nella parte. Il primo appare un corpo estraneo a tutto, brilla di luce propria nella sua diversità di orfano abituato ad arrangiarsi. La seconda dallo sguardo profondo e inquietante, dai tic nervosi, è la sua << donna>> ideale anche visivamente. Murray come sempre con pochi tocchi e con quell’espressione impassibile è come se guardasse sempre dietro a sé, al peso di un passato perduto di cui nulla conosciamo e al fallimento della sua famiglia. A McDormand, qui moglie di Murray, basta stare in scena per tratteggiare con sicurezza e la consueta presenza la figura di una madre che sembra avere perso il controllo del proprio matrimonio e della figlia. Geniale è l’interpretazione del capo scout di Ed Norton, stereotipo di un magnifico idiota, e all’altezza la malinconica vocazione all’infelicità e alla rassegnazione di Bruce Willis.Ma non ci sono solo loro:nel cast appaiono la rigida assistente sociale Tilda Swinton, che con grande classe dimostra di saper suonare anche le corde di un film all’apparenza brillante, Harvey Keitel e Jason Schwartzman, ormai habitué dei film di Anderson. Nella parte del narratore Bob Balaban, molto incisivo. Da non perdere i titoli di coda: qui viene scomposta un’altra volta la musica di Desplat. Forse, all’ordine, non ci si arriverà mai.