SE A RECENSIRE <<Shame>> fosse stato Woody Allen l’avrebbe congedato con la splendida battuta di <<Il dormiglione>> che sintetizzava la domanda sulla vita con un secco <<sesso e decesso>>. Ma in <<Shame>> di Steve McQueen non ci sono né ironia né sorriso, bensì cupezza e dramma individuale, quelli che vive dapprima senza assillo della colpa e poi via via in un crescendo di <<vergogna>> il protagonista Brandon, l’eccellente Michael Fassbender che grazie a questa interpretazione si è portato a casa la Coppa Volpi nella scorsa edizione della Mostra del Cinema di Venezia. <<Shame>>, come molti altri film della rassegna, tra i quali il vincitore <<Faust>>, si pone sul cammino complesso di chi cerca di riflettere sull’uomo contemporaneo. Ma a differenza del capolavoro di Sokurov, in <<Shame>> assistiamo a uno status quo della condizione individuale, in cui McQueen non ricerca l’origine, l’esegesi, i motivi, bensì la segue, accompagnando il proprio protagonista nel vuoto esistenziale della quotidianità. Di ciò che è stato prima Brandon, infatti, lo spettatore non sa e non saprà nulla. Chi resta attaccato allo schermo per l’intera durata di uno tra i film maggiormente <<ipnotici>> del 2011 ne conosce soltanto il presente: un oggi proiettato in un domani sempre uguale e identico a sé stesso, fatto di una carriera di successo, di incontri con gli amici, di sbrigative copule con donne occasionali o escort da ingaggiare, di viaggi virtuali nei siti porno, di chattate erotiche con la <<desnuda>> preferita, di masturbazione ogni qual volta ne prova voglia. Potrebbe essere uno stupido questo Brandon, al quale madre natura ha donato bellezza, fascino, successo, soldi. Invece non lo è. Potrebbe essere anche una versione attuale di Don Giovanni come potrebbe essere un seduttore seriale, un narciso. Invece non è nemmeno questo. E’un uomo solo che trova come unico esercizio meritevole di attuazione il sesso in quanto tale. Il suo <<godere>> è il voyeurismo del terzo occhio, di un uomo incosciamente disperato che vive a trecentosessanta gradi la sessualità che lo bombarda ripetendola nel reale probabilmente per sentirsi a livello psicologico protagonista delle stesse immagini che osserva. Uno stanco incedere esistenziale che non viene scalfito da alcuna commistione sentimentale. Perché Brandon non è uomo <<che non sapeva amare>>. Non ama, non prova, non sente e di questo ne ha piena coscienza, senza vergogna. E’ un prigioniero in territorio all’apparenza libero. E come i prigionieri ripete fino al parossismo gli stessi gesti, le stesse azioni. Ma sarà l’incontro con la sorella, il suo alter ego, a porgli il dubbio, a metterlo di fronte alla propria condizione, a far scattare quella cognizione improvvisa di ciò che è e quindi della vergogna stessa. L’occupazione dello spazio fisico e mentale che è la propria casa, il ritrovarsi di fronte un’altra persona che al contrario di lui vive di ricerca di sentimenti, lo porterà a discendere ancora di più nell’abisso nella speranza, solo apparente e appena accennata nel finale, di essere uscito dal tunnel, di presentarsi al mondo diverso da come era prima. Ma non sappiamo se davvero ci riuscirà, McQueen non ci dice nulla a proposito. Anche prima della parola fine si limita al presente. Forse Brandon che non gioca più con gli sguardi delle donne incontrate sul metrò è cambiato, ma è probabile che resterà ciò che era il giorno prima. Vivendo la sua condizione esistenziale in modo drammatico, con la consapevolezza di essere su una circonferenza che porta sempre allo stesso punto.
<<SHAME>> in mani sbagliate avrebbe potuto trasformarsi in un film pieno di pruderie, di morbosità. Se non è così è per merito dell’inglese Steve McQueen che attorno al soggetto gira una pellicola di fascino e di atmosfera rare, Bach in sottofondo, nudità e amplessi trattati come se possedesse un pennello, nessuna concessione alla volgarità, un continuo cambio dei colori, delle luci, delle situazioni, la finezza della figura e interpretativa di Fassbender, destinato a diventare un sicuro punto di riferimento tra gli attori della generazione dei trentenni. In <<Shame>> c’è una ricerca stilistica senza pari che affonda le proprie radici in importanti rimandi scenici, molto Fassbinder– non è un gioco di parole- soprattutto quello di <<Un anno con tredici lune>> e altri ancora. Alcune situazioni valgono da sole il prezzo del biglietto, come lo splendido inizio in cui Michael Fassbener prima del titolo del film giace immobile e nudo, immerso in un lenzuolo verde, come un Cristo, o la lunghissima sequenza della metro quando il protagonista e una passeggera si corteggiano attraverso accenni del volto e piccoli movimenti degli arti. Non esiste in <<Shame>> nulla di sbagliato a livello stilistico. Per gli esteti del cinema è una gioia. Il <<jogging>> notturno per le strade di New York di Brandon diventa quasi una via crucis nella quale appaiono le <<stanze>> della civiltà, del singolo che sfila tra i simboli del contemporaneo di una città contenitore di solitudini destinate a non incontrarsi. <<New York New York>> cantata da Carey Mulligan -Sissy nonché attrice basilare per la riuscita del film e di una bravura tale da rivaleggiare con lo stesso Fassbender – è un’altra scena che passerà alla storia, roba da far saltare all’attrice inglese i provini per i prossimi vent’anni, perché una parte per lei ci sarà sempre.
NELL’ESISTENZA di Brandon esiste solo un rapporto stabile: con Sissy, la sorella. E’il suo alter ego, abbiamo scritto. Un’altra persona che sulla solitudine ha basato il proprio modo di esistere ma che al contrario del fratello maggiore subisce questo stato e cerca di infrangerlo con la vitalità che l’ha spinta in passato e la spingerà a morire e rinascere, a riprendere daccapo, a cercare il proprio annullamento attraverso il suicidio, scelta estrema da eroina romantica che comunque prova, sente, nella sua ubriacatura di ricerca esistenziale che la porta al rapporto odio-amore con la vita stessa. Di fronte a lei Brandon prova l’unico sentimento del quale è capace. Forse un trasporto fisico e incestuoso, di sicuro uno stato di malessere mentale che lei gli procura, perché non sconta nulla e soprattutto lo accetta per quello che è, cercando di migliorarlo, di scacciare gli incubi che lo attanagliano. Brandon, l’uomo in fuga da sé stesso, ne ha coscienza e proprio per questo fa di tutto per isolarla, per tenerla lontana. Quando Sissy canta <<New York New York>> assistiamo al primo cedere di Brandon: piange perché vede una donna che è arrivata da lui per ricominciare, che crede in un sogno e non si accorge della gabbia nella quale è entrata. Visione priva di alcuna speranza, disillusa all’ennesima potenza, <<Shame>> è un film durissimo. Ci mette davanti ai labirinti individuali, confrontando la rassegnazione- Brandon– con la voglia di lottare, Sissy. Eppure solo la superficie, sembra indicare McQueen, muterà. Non il fondamento, non quella prigione nella quale l’individuo contemporaneo si è calato e dove nemmeno gli occhi ammiccanti di una ragazza hanno più senso né valore. Non servono.