UBRIACARSI di vita e quindi di morte, vivere con ogni poro che aspira il momento e finirla nel tempo sbagliato, prima del dovuto, per restare memoria. Non è mai facile andare a caccia della storia ideale per un soggetto cinematografico. Quando si parla di poeti, poi, c’è il rischio di precipitare in quell’abisso chiamato agiografia, nella retorica del maledetto o nel compitino biografico, sul quale posare ciliegie piagnucolose per far lacrimare lo spettatore incauto e sogghignare con ferocia quello più smaliziato. Con Antonia, il quasi debuttante Ferdinando Cito Filomarino rischiava molto. Da un’intuizione del suo coproduttore e mentore Luca Guadagnino si era trovato i libri di poesie di Antonia Pozzi e la storia di una vita bruciata, conclusa prima del previsto. Prima della pubblicazione delle poesie, all’alba dell’essere donna della poetessa. Gli ingredienti per un flop c’erano tutti. Se a questo aggiungiamo che Filomarino è nobile, ha una discendenza nemmeno troppo indiretta con Luchino Visconti ed è sponsorizzato da uno degli autori più snob- ma bravi- del cinema italiano, il già citato Guadagnino, e che nel film si avvale di collaborazioni internazionali importanti si poteva prevedere un disastro di non indifferente portata anche sul fronte della critica togata che spesso dell’invidia fa la propria bandiera. Invece Antonia è quello che non ti aspetti. È il film che vorresti realizzare ma non hai né la capacità né la testa per pensarlo in questo modo. Soprattutto ti accorgi che ti manca la delicatezza, il pudore, la capacità di prendere a calci il dato biografico di una delle maggiori poetesse italiane, per cercare di andare oltre il seminato ed il previsto, spiazzando, lasciando lo spettatore in preda a una fascinazione ben diversa da quelle che ho conosciuto in molti debutti del cinema italiano. Perché se c’è in Antonia anche ” maniera ” non è mai fine a sé stessa; se esiste la raffinatezza, la cura di ogni minimo dettaglio non è per dimostrare di essere il più furbo o il più bravo. Ma è per non cadere in alcun equivoco, dire al colto e all’inclita che questo è il modo di fare cinema del proprio autore. Quindi possedere già dall’esordio una propria cifra stilistica ben precisa. Forse migliorabile e probabilmente da alleggerire un poco ma personale. In parole povere: dietro ad Antonia c’è un autore non un semplice esecutore per immagini.
ANTONIA POZZI era già stata descritta da un altro film italiano: Poesia che mi guardi di Marina Spada, autore tra i tanti realizzati dell’eccellente Come l’Ombra; ma Antonia più che vertere sulla poesia cerca quasi forsennatamente di comprendere e di rendere intellegibile e conosciuto il personaggio stesso di Pozzi. Non è biografia, perché rifiuta fin dalle prime scene, di seguire un filo narrativo cronologico; il suo regista preferisce concentrarsi esclusivamente sulla figura della poetessa in quanto ragazza che sta per crescere. L’accompagna dagli ultimi anni di liceo fino all’insegnamento in un percorso costellato da una disperata ricerca di vita da acquisire sotto ogni forma. Vita è soprattutto amore. Ricerca di armonia attraverso la condivisione. Ed è in questo cammino che Antonia Pozzi del film trova gli ostacoli posti dalla famiglia che ne accentueranno l’ipersensibilità, il malessere esistenziale. Il tutto tratteggiato con un candore, un rispetto, un volontario porsi dietro le quinte da parte di Cito Filomarino che evita qualsiasi coinvolgimento, cercando proprio di porsi come terzo di fronte alla vicenda umana della propria protagonista. È così che tutti gli accadimenti nella vita della poetessa vengono ripresi con pochissime battute, tanti sguardi e il tanto scrivere della ragazza. Nessuno in Antonia recita le poesie di Pozzi. Le leggiamo mentre le scrive quasi fossero quadri preparatori a una nuova vicenda esistenziale del personaggio. Attorno alla sua figura si muovono gli amici e i conoscenti ed ad ognuno di essi l’eroina del film chiede solo una cosa. Chiede vita, urla vita perché è la vita stessa che lei vuole donare al mondo. Cito Filomarino la inserisce nel suo ambiente alto borghese e intellettuale. La spia e la segue, ne prende le distanze ogni qual volta un pretendente sale le scale del palazzo milanese in cui vive e ne chiede la mano. Come accade alla stessa poetessa, lo spettatore si trova di fronte con lei accanto a una vetrata chiusa e ascolta, in lontananza, i dinieghi sdegnati del padre. C’è sempre nel film la ricerca di un rumoroso silenzio. Di una pace apparente scossa dai movimenti del corpo e dalla gestualità accennata e mai forzata di Linda Caridi, che interpreta Antonia, o l’ansia dell’armonia con la natura che equivale a cercare la conclusione dei tormenti. Era un sentiero impervio, difficile come quelli che Pozzi scala nel film nella catena delle Grigne. È il cammino faticoso di una vita in apparenza normale quasi omologata dove la passione brucia tra le coperte nella solitudine di una camera, dove le mani cercano il proprio corpo per trovare piacere e soprattutto diventano terminale di un cuore che scrive. Poesie, riflessioni.In modo compulsivo. Cogliere gli attimi, descriverli. Senza soluzione di continuità.
LA BRAVURA del regista è proprio in questo: crea un film solo in superficie algido sulla vita di un vulcano. Se ne sta lontano dai pruriti, dall’eccesso. Vuole cogliere l’essenza della poetessa seguendola nelle tappe che in progressione la porteranno a un inatteso suicidio. Ci riesce mediante una messa in scena raffinata con una scenografia che ricrea fin nei minimi particolari- dai costumi al vasellame
agli esterni- l’Italia alto borghese dell’epoca fascista, dove il regime si avverte nella forma mentis paterna pur non essendo mai mostrato. Colpisce perché punta dritto all’intimo della sua eroina fingendo soltanto di spiarla. Si tiene sempre un passo indietro, usa appunto quel terzo occhio che il professor Antonio Banfi indica ad Antonia come conditio sine qua non per diventare per davvero un poeta. Così Cito Filomarino coglie l’essenza di Antonia Pozzi, ne assapora gli odori e gli umori, il travaglio e lo dona a chi sta in sala e a chi ha voglia di un cinema in cui l’urlo proviene dall’anima e dal corpo, dalla parola scritta che prende a braccetto l’immagine e che se ne sta lontano dalla didascalia. Il rischio che corre è di essere fin troppo ossessionato dalla ricerca del bello, del particolare, a volte di perdere ritmo. È ciò che accade in qualche istante del film ma è un piccolo limite che a un ventinovenne al primo lungometraggio della carriera può essere perdonato. Perché in Antonia esistono trovate geniali, spiazzanti ma del tutto coerenti con la sua estetica come nella scena della masturbazione dove all’improvviso fa capolino ” Va di Piero Ciampi utilizzata quasi come sinfonia per unire i destini dei poeti, di tutti coloro che hanno voluto raccontare la vita anche attraverso la propria morte.
FILM ADULTO, girato meravigliosamente, fotografato dal thailandese Sayombhu Mukdeeprom, fotografo tra i tanti del discusso ma non banale vincitore di Cannes 2010 Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti, scritto sia dal regista sia dal cosceneggiatore Carlo Salsa, Antonia pulsa in modo letterale della grande interpretazione di Linda Caridi. Delicata, esile, dolcissima, sorridente, sensuale la giovane attrice milanese- a dimostrazione che fare teatro è ancora basilare- porta sullo schermo il malessere di chi vuole vivere e deve salire sulla giostra dei sensi di perdita e delle impossibilità. Mai eccessiva, naturale, è un piacere osservarla, seguirne i percorsi di mente e corpo, carpirne segreti e tormenti, il suo passeggiare su gioie e drammi. Tutto appare semplice nel suo recitare mai forzato, mai egocentrico ma essenziale, giocato con i movimenti, le espressioni e appunto quei silenzi che sembrano parole in grado di squarciare il buio ma non di lenire la fatica del vivere.