C’è continuità tra un film e l’altro di Nuri Bilge Ceylan. E’una strada lineare e coerente sulla quale cammina il più rumoroso tra i silenzi degli ultimi anni. Ceylan a volte riceve critiche severe: c’è chi non gli perdona il suo essere quasi un emulo di Antonioni -con scherno lo definiscono << Antonioni del Bosforo >>, ma io e so che lo adora spesso rivedo in lui un po’ di Tarkovskij -, chi con chiarezza spiega che la noia è la regina delle sue opere, chi lo accusa di non badare più di tanto alla storia o di risolverla sempre con artifizi. E’chiaro che il mio pensiero di spettatore e appassionato sia diverso: non per nulla Ceylan è anche un link di questo blog, fa parte delle mie passioni e dei miei gusti individuali. Ma posso comprendere anche i suoi detrattori o non entusiasti: la lentezza, se misurata con il cronometro e non vissuta, causa noia. Il silenzio, se non ascoltato, è nulla. I primi piani, se proposti di continuo e seguiti distrattamente dal voyeur occasionale, possono apparire come semplici volti degli stessi attori. I misteri esistenziali, che nelle opere di Ceylan sono presistenti ai personaggi stessi, per chi non è abituato -e non ce ne vogliano gli hollywoodiani da avventura e basta- non creano azione apparente. Per chi va al cinema per mangiare pop-corn e bere Coca-Cola o messaggiare con il telefonino un film di Ceylan non è indicato. Ma dato che la funzione del cinema, del teatro, della lettura e di tutte le forme espressive è il divertimento della ragione e dell’anima che proviene dalle domande che l’autore si pone e ci pone, credo che una maggiore attenzione e un minor controsnobismo farebbe bene sia a molti spettatori sia a molti recensori. Si guadagnerebbe in qualità, almeno a livello di attenzione e di riflessione. Le tre scimmie e le dinamiche immobilità. Il silenzio è uno dei modi espressivi più forti a disposizione dell’umanità. Nel cinema bisogna saperlo rendere, girare e interpretare. I silenzi dei personaggi di Bergman, Tarkovskij, Ferreri, Bunuel, Antonioni, dei tanti orientali della prima e dell’ultima ora è l’arma che ha reso immortali sceneggiature, attori e registi. Ceylan non sfugge a questa regola: ti martella il cervello con il silenzio. Ti sussurra all’inizio poi ti urla le disperazioni, le vigliaccherie, le finzioni della sua umanità imperfetta, dove gli eroi non esistono, dove le piccole bassezze dell’individuo si trasformano in colossali metafore di sfiducia nell’uomo. Il silenzio martellante circonda lo sguardo cinico del protagonista di << Uzak >>, ancora oggi il suo film migliore. Il silenzio descrive perfettamente lo stato d’animo della famiglia nelle << Le tre scimmie >>. Le pause, gli sguardi, i panorami a volte caldissimi pur innevati, in <<Uzak >> e << Iklimer >> chissà mai perché tradotto in italiano con un banale << Il piacere e l’amore >> invece che << Climi >>, danno alla sceneggiatura ciò che in molti si attenderebbero: la parola. In Ceylan il non detto assume maggiore rilievo di ciò che esce dalle labbra dei suoi attori. E’ciò che esprimono occhi e paesaggi a parlare. C’è un grandissimo lavoro sugli interpreti, c’è la ricerca del particolare che in superficie sembra ininfluente e che invece rappresenta la base di un colpo di scena, di un mutamento, di una evoluzione. Prendiamo la madre de << Le tre scimmie >>: nelle prime scene la troviamo dimessa come il resto della sua famiglia. E’una donna che lavora in un ristorante, una donna sfiorita che sembra non avere futuro di fronte a sé. In apparenza non cambia nulla nemmeno dopo. Invece basta una posa lasciva sul divano ed ecco che assistiamo a un fatto nuovo che ancora non è accaduto ma che viene quasi telefonato dal regista: a poco a poco Hatice Aslan ci mostra che è entrata nel vortice della passione e la ritroviamo sensuale, scollata, bellissima alle prese con la sua relazione proibita. Il tutto attraverso un crescendo messo in scena quasi con distrazione. Sempre nelle << Le tre scimmie >> la figura del figlio ci anticipa fin dall’inizio che qualcosa a casa non va. Che c’è un segreto ad unire morbosamente i suoi tre componenti. Un segreto del quale non si parla, non si parlerà mai se non in una scena centrale, anche questa inserita nella sceneggiatura con artificiosa nonchalance: il fratello morto annegato o ammazzato accidentalmente chissà – a Ceylan non bisogna chiedere i perché, non interessano, sono appunto presistenti alla storia e ai personaggi- il cui fantasma si è palesato per primo a lui che non ha elaborato il lutto e che più degli altri è la prima vittima di questo non detto, del non affrontare la realtà delle cose. E che si sia in presenza di qualcosa di corrotto dentro, di spezzato è reso dall’autore molto bene nella scena in cui entra nello schermo, rispondendo a una telefonata notturna, Yavuz Bingol, il padre che accetta di finire in galera al posto del politico perbenista in cambio di un lauto vitalizio. Ceylan ci inganna: per quasi tutta la durata del film proprio questo magnifico attore ci sembra l’unico innocente, l’unico in grado di sacrificarsi in nome della salvezza familiare più che della venalità. Non sarà così, anzi. Il segreto che lega i tre alla fine resterà saldo grazie al perpetuare le stesse modalità di corruzione nei confronti di un terzo. Se fossi un regista avrei chiuso la porta di casa e scritto la parola fine su quell’immagine. Ceylan va oltre: un uomo, il golfo del Bosforo, il vento, i colori quasi seppia e un temporale che scarica fulmini e acqua su un’umanità colpevole. Si congeda così dal film premiato a Cannes nel 2008 per la miglior << messa in scena >>. Ho parlato di << dinamiche immobilità >> a proposito di questo film e della produzione generale di Ceylan. E’ un ossimoro spero efficace per sintetizzare la filosofia del regista turco. Immobile ma sempre con un disilluso cinismo saltellante nel cervello è Mahmut, il protagonista di << Uzak >>. Immobile pur nella sua ricerca di lavoro, di sogni, di avventura è chi proviene da questo << Uzak >>, in turco << lontano >>, Yusuf, immobili sono le loro vite e tali resteranno anche di fronte al caso che potrebbe stravolgerle perché l’uno è lo specchio dell’altro, sono vicinissimi e lontani da loro stessi e da ciò che li circonda. Sono la neve calpestata del porto di Istanbul, il mare ghiacciato, il gelo dell’esistenza. Immobile è la storia di << Il piacere e l’amore >>, un uomo, la sua donna, l’amante, la fuga, il ritorno, anche qui recite imprigionate dai paesaggi innevati. Eppure in tutti questi silenzi, in tutto questo non accadere perché tutto è già stato, Ceylan ci offre nei suoi film il gusto della riflessione amara sulla vita, il taglio disincantato, senza speranza di ciò che siamo, del nostro peccato originale, del nostro autentico inferno. Meryl Streep e il cinema. Meryl Streep cosa c’entra con Ceylan? Nulla, eppure qualche giorno fa ho assistito nel dvd del << Il dubbio >> a una bellissima intervista che l’attrice ha rilasciato all’autore del film, John Patrick Shanley. C’è stato un passo che mi ha colpito, quando Streep differenzia teatro dal cinema. In quest’ultimo, afferma, c’è sempre la possibilità per lo spettatore di alzarsene, di andarsene, di distrarsi. In teatro no: sei obbligato a restare ed è proprio nel momento in cui non riesci più a stare seduto, quando inizi a prendere pugni nello stomaco
che spesso avviene la magia. E’ l’attimo nel quale il teatro assolve alla propria funzione, ti porta a chiederti, a interrogarti, a riflettere. Il tutto era riferito a << Il dubbio >>, visto dalla Streep a teatro tempo prima ma vale a parer mio per il generale: il buon spettatore di cinema è colui che elabora ciò che dallo schermo viene proiettato. Che mettiamo lo rifiuta o non è d’accordo, che lo contesta o lo apprezza. Che lo prende di << pancia >> per poi trasferirlo al cervello. E’per questo che prego che nascano mille Ceylan e che la sua << noia >> continui a farmi crescere come tutti gli autori << noiosi >> hanno fatto fin da quando ero bambino.