I GIOVANI si appropriano degli oggetti e dei consumi del passato. Li fanno propri. Rifiutano le distrazioni tecnologiche, rifuggono dalle trappole di wikipedia e danno l’impressione di vivere il presente sfruttando ciò che per gli individui della generazione degli Anni’70 è stato basilare per la loro formazione: videocassette, slogan pubblicitari, un’idea sufficientemente bohémien dell’esistenza. Il confronto tra nativi digitali e chi il digitale ha dovuto subirlo e seguentemente utilizzarlo può affascinare, creare un’illusione soprattutto quando le parti si invertono. I giovani appaiono più maturi dei quarantenni, più legati ai valori tradizionali, rispettosi del passato che non rifiutano, anzi ricercano nelle passioni e nel lavoro. Ma attenzione potrebbe essere un grande inganno, una fascinazione necessaria per mettere il mondo dei quarantenni a nudo e allo stesso tempo per non condannarlo in toto. Per scoperchiare ansie, fallimenti, discorsi irrisolti. Per renderli più autentici e veri. La traduzione italiana del titolo dell’ultimo film di Noah Baumbach, Giovani si diventa, non rende, come spesso avviene, piena giustizia e senso a quello originale While we’re young, e potrebbe sviare lo spettatore distratto dal caldo estivo e dalla scarsa programmazione qualitativa dei cinema in questo periodo. Per fortuna se uno rinuncia alla tendenza di abbandonare per principio film dai titoli equivoci – stessa cosa avvenuta con il brasiliano Aiuto, è arrivata mia figlia– ci si trova al cospetto di una storia profonda, intelligente, scoppiettante nella sceneggiatura e nello script , che ha un cast ben amalgato e all’apice della forma. Come spesso accade con i film del regista americano, basti pensare al delizioso Frances Ha, ci si ritrova invischiati in un gioco che va oltre ciò passa lo schermo perché da un canovaccio semplice, la raffinatezza intellettuale e culturale di Baumbach riesce a offrire riflessioni a iosa, non imponendole ma porgendole con la consueta leggerezza narrativa che è poi un suo marchio di fabbrica.
SIAMO anche qui a New York, in quella intellettuale e un po’radical chic dove una coppia di quarantenni, Stiller e Watts, sbarca il lunario tra lezioni di cinema in una libera università per anziani che non riescono mai totalmente, un documentario che da otto anni non si riesce a concludere, e il fantasma ingombrante del padre di lei, che è stato ed è un’icona del documentarismo d’autore statunitense. È una coppia come tante altre, privata a poco a poco dei sogni adolescenziali, alle prese con finanziamenti che non arrivano, figli dapprima desiderati e poi rifiutati, normalmente incancrenita sulle solite cose e che di fronte avverte lo spettro di possibilità che la vita ha trasformato in negazioni, di un futuro che inizia a essere corroso dal peso delle scelte e del passato. Ma accade che, come in una favola, spuntino all’improvviso due giovani venticinquenni, Dryver e Seyfried, con il primo che vuole diventare documentarista egli stesso e che sembra vivere del mito dell’unica opera realizzata da Stiller, per i più introvabile, chissà come recuperata su e bay. Il film diventa quindi la storia di questo incontro intergenerazionale tra chi ha già dato e fatica a dare ancora e chi invece sembra essere arrivato al momento giusto per iniettare nuova linfa nella coppia e creare quell’entusiasmo verso la vita e la professione che stava iniziando a scemare. C’è una cosa che soprattutto affascina la coppia Stiller-Watts: l’uso continuo da parte dei due ragazzi degli stilemi di ciò che è stato; videocassette, nastri musicali, vinile al posto dei cd, biciclette al posto delle auto, riti di liberazione psicologica presi a nolo dagli Anni’60, la eccezionale capacità di armonizzare tutti questi con il contemporaneo, così da non rendere i giovani estranei al presente ma ben partecipi; connessi sì ma in modo << antico >>, quello appunto che hanno vissuto alla loro epoca Stiller-Watts.
COSA ACCADRÀ lo lasciamo a chi avrà il gusto di entrare in sala. Forse sarà tutta una farsa, forse arriverà il momento di lasciare la finzione al proprio posto e di riappropriarsi, amaramente, della propria vita, accettando anche quella degli altri, ma iniziando a ricostruire nuovi paraventi e nuove scuse per dare un senso logico alla sopravvivenza. Baumbach è regista leggero: si muove in punta di piedi, gioca con i propri personaggi, li usa per farci divertire e per rendere universali le loro debolezze, i loro tic, il terrore di essere entrati in una fase dove guardare avanti può spaventare e fare barcollare. Stiller-Watts ci riusciranno ma in questo saranno molto simili al personaggio di Frances Ha, costruendo alla fine dei sogni per non annegare. Non sono ingenui e non sono immaturi. Di sicuro più consci.
POETA dell’amarezza analitica travestita da commedia brillante, Noel Baumbach con While we’re young (scusate ma il titolo italiano proprio non lo sopporto), firma un’altra opera cardine della propria non banale cinematografia. Rispetto al già citato film precedente, questo ha uno svolgimento più articolato che rischia, soprattutto nella seconda parte, di togliere un po’di gusto allo spettatore, perché la sceneggiatura, fino ad allora sopraffina e realmente d’autore, risolve la trama con eccessiva faciloneria, perdendosi in qualche distrazione che limita l’immedesimazione totale tra chi osserva e ciò che viene mostrato. Ma è una pecca tutto sommato minore perché di materiale sul quale riflettere ne esiste in abbondanza. Di certo l’autore, che pur essendo diverso può benissimo essere accostato come tematica base delle proprie produzioni a Woody Allen, non ha sbagliato nulla nel rendere imperdibile la prova di tutto il cast.Su Naomi Watts– evviva un’attrice intelligente che non ha paura di mostrare le rughe- bisognerebbe scrivere a parte. È di una bravura superiore alla media, non sbaglia un film, lavora sempre con registi più che importanti e geniali, eppure ogni sua interpretazione viene relegata sempre a un ruolo che sfiora l’anonimato. Non è così e bisognerebbe che qualcuno iniziasse seriamente a dare all’ex ragazzina australiana che David Lynch innalzò al ruolo di icona ciò che meriterebbe. Che sia drammatica, comica, brillante Watts non sbaglia mai una parte e qui offre un campionario di espressioni, movimenti, battute che esaltano appunto la sua bravura. Ben Stiller è un altro outsider troppo spesso utilizzato a basso regime o confinato nel genere. Baumbach qui lo libera, rispettandone le caratteristiche di base. Quanto ad Adam Dryver c’è poco da dire: con quel volto irregolare, quel suo essere diverso a prescindere, ha già scritto pagine importanti negli ultimi anni e ormai più che una giovane promessa è un attore fatto e compiuto. Brava anche Amanda Seyfried che non è attrice solo perché ha degli occhi stupendi. E per gli amanti della musica c’è anche da non perdere la prova del Beastie Boys Adam Horovitz, che interpreta Flechter, l’amico quarantenne, e Peter Yarrow, dei Peter-Paul and Mary, qui nella parte del professore intellettuale alle prese con problemi alla prostata che Stiller utilizza come voce narrante del suo documentario che forse non produrrà mai. Con Charles Grodin, nella parte del padre di Watts, sono altre ciliegine su un dolce che inizia con la citazione del Costruttore Solness di Henrik Ibsen. Già Baumbach è autore colto. Molto. E sa soprattutto dove andare a parare.