LE ONDE si infrangono sugli scogli mentre il vento si infila sibilando tra le carcasse di barche abbandonate e lo scheletro di un mostro biblico lasciato a riva. Gli spazi sono immensi, le strade polverose e non asfaltate, le case costruite con il legno. A vederli da lontano i pochi umani appaiono come punticini immersi nel paesaggio mentre combattono inutilmente per esistere. Come se il dio di quelle terre inospitali, selvagge e affascinanti, contenitori di solitudini sconfinate, avesse deciso di punire gli uomini facendoli semplicemente vivere. << Dio è dentro di noi >> dice verso la fine di << Leviathan >> il prete ortodosso allo sconfitto Kolia per il quale invece dio è morto, non sta dalla parte sua né di quella di tutti gli altri. È il momento in cui Andrei Zvyagintsev e il suo cosceneggiatore Oleg Negin svelano lo stretto legame tra questo splendido film e il libro biblico di Giobbe. Fino ad allora il Leviatano era stato il sistema politico alla base di tutte le disavventure, spesso tragicomiche e grottesche, di un’umanità alla deriva nella Russia del terzo millennio. Si, perché tra i riferimenti culturali presi come base per la creazione di quest’opera imperdibile, che ha vinto il premio per la miglior sceneggiatura a Cannes 2014 e il Golben Globe per il film straniero nel 2015, c’è anche l’opera filosofica di Thomas Hobbes, dove il Leviatano era un mostro artificiale le cui scaglie altro non erano che sudditi mentre il volto era di un umano superiore che stringeva tra le mani una spada e il simbolo del potere religioso, la pastorale; allegoria pura dell’esistenza dell’individuo nel contesto sociale gestita da un potere supremo che poteva essere equiparato a un dio mortale. << Leviathan >> quindi si trasforma in un grande affresco del nostro mondo di marionette che il regista siberiano ha voluto mettere in scena prendendo spunto da un fatto di cronaca avvenuto in Colorado, nel quale un saldatore venne vessato da chi voleva acquistare il terreno sul quale sorgeva la sua officina, iniziando un’odissea burocratica-amministrativa, conclusasi in modo tragico, per far valere i propri diritti.
QUELL’EPISODIO ha dato lo spunto a Zvyagintsev di proseguire il cammino autorale che già gli aveva permesso di vincere il Leone d’Oro a Venezia nel 2003 con << Il ritorno >> e il premio speciale della giuria della sezione Un certain regard a Cannes nel 2011 con << Elena >>, del quale la coprotagonista, Yelena Lyadova è anche uno dei personaggi principali di << Leviathan >>. Perché unendo il fatto di cronaca con le teorie di Hobbes e un profondo senso mistico e morale, l’autore crea un capolavoro i cui meriti vanno ben al di là delle belle parole, quasi unanimi, espresse dalla critica. Potrebbe sembrare un film << pesante >>, di quelli che non piacciono alla gente. Ma non è così: << Leviathan >> è anche un film per certi versi divertente, rocambolesco, dove l’assurdo fa capolino e dove le battute si sprecano, dove il regista si diverte a giocare con la tensione, allentandola e poi all’improvviso portandola all’estremo usando la leva psicologica senza privare mai la scena di un’oggettiva, curatissima, bellezza fotografica e di colore. Sappiamo bene che dire che si va a vedere un film russo evoca nella gente battute fantozziane. Ma non è il caso di << Leviathan >> sul quale tutto si può dire fuorche essere un film da considerare alla stregua di un mattone. Anzi, mai come in questo caso l’impotenza dell’individuo contro il sistema politico-religioso viene mostrata con estrema naturalezza, ricorrendo a una precisa descrizione di dove ci troviamo e di cosa si tratterà fin dalle prime scene. Che sono indicative; basta osservarle con attenzione. C’è, poco dopo l’incipit, un uomo che si reca in una sperduta stazione di una città più grande del paese dal quale è partito. Un treno si ferma, poca gente sale e poca scende. Siamo nella penombra luminosa di una normale alba russa e l’inquadratura fa riflettere. Perché i protagonisti di quella che sarà la storia sembrano essere in secondo piano rispetto a tutto il resto: chi è sceso dalla carrozza entra in scena di spalle mentre l’occhio dello spettatore guarda il treno fermo, il fumo del vapore e qualche passeggero che cammina alla fine della pensilina. Già qui, Zvyagintsev sembra suggerirci quale sia il ruolo dell’uomo nella sua storia: ininfluente, destinato a essere ricondotto a un numero di una massa, secondario rispetto al contesto. E infatti << Leviathan >> ci proietta in un’umanità impura, dove non esiste innocenza. La polizia è corrotta per professione, il potere esecutivo va a braccetto e fa affari con quello della chiesa ortodossa, i sistemi giudiziari e di controllo sono collusi e sopravvivono grazie alla propria collusione con chi tira i fili. Ma anche loro sono ingranaggi, scaglie, del mostro Leviatano. Nulla può salvarli dall’inferno terrestre, dalla vita vissuta come condanna divina.
L’UMANITÀ DI LEVIATHAN può solo affidarsi alla bottiglia di vodka, perché ogni tentativo di cambiare lo stato delle cose è impossibile. Realtà immutabile, ferma come i relitti consumati dalle onde e dal vento; nessun innocente, nemmeno i giovani che si riuniscono per bere dove un tempo c’era una vecchia chiesa. Lo sguardo di Zvyagintsev si posa su quello dei suoi magnifici attori. Di ognuno caratterizza motivazioni, speranze, disillusioni, sentimenti. Soprattutto una disperazione rassegnata ma, quasi sia un ossimoro vivente, dinamica, sempre pronta a rituffarsi in nuove speranze che daranno il là a nuove sconfitte. Non è solo uno splendido ritratto di ciò che è la Russia, come con fin troppa semplicità è stato osservato, ma è un affresco di altissima caratura morale sul significato stesso della vita e sulla ricerca del divino da parte dell’uomo al quale il sistema, inteso in modo generico come insieme di istituzioni burocratiche-politiche, ha fatto di tutto per far perdere qualsiasi accenno di fede. Sono uomini che come Giobbe ricercano le prove dell’esistenza di dio. E non le trovano perché, alla fine, a restare in piedi mentre viene distrutta la casa del protagonista è solo una bottiglia di vodka, simbolo resistente di una consolazione artificiale. La stessa che spinge gli attori a tirare al bersaglio sui ritratti dei presidenti dell’Unione Sovietica durante un picnic.
GIRATO non casualmente a Teriberka, piccolo villaggio che si affaccia sul mare di Barents, dove l’apocalisse scenografica indica un mondo lasciato a se stesso e in decomposizione, il film è recitato in modo sublime dagli otto personaggi principali che offrono un’interpretazione piena di sfumature, di cambiamenti umorali e che consentono di entrare subito in sintonia con tutti loro e le rispettive storie. Una nota di merito particolare va soprattutto alla figura di Lilya, la già citata Yelena Lyadova la cui intensità di sguardo ci guida lungo i percorsi psicologici del suo compagno e dei suoi amici-nemici. Si sofferma Zvyagintsev sui suoi silenzi, sul suo volgere gli occhi verso la vastità dei paesaggi, sul senso di provvisorio anche sentimentale che grava sulla sua vita. Sulla conoscenza del sacrificio. I suoi due compari principali, il marito Kolya, interpretato da Aleksej Serebryakov e Dimitri, Vladimir Vdovichenkov-che nella vita reale è suo marito per davvero- non le sono da meno. Ma è tutto il cast che gira come un orologio, passando dal drammatico al grottesco in pochissimi secondi. Una prova d’assieme da sottolineare in uno dei film più importanti e meglio riusciti degli ultimi anni. Un racconto morale potente che sprigiona la propria lezione in un finale di forte simbologia come a domandarci chi è dio e dove si trova. Nel mare di Barents qualcosa o qualcuno muove le onde e le acque, fa spirare il vento e arrivare forse un temporale. All’uomo non resta che vivere il proprio inferno in terra.