PREMESSA:se correrete al cinema a vedere il vincitore della Mostra del Cinema di Venezia 2014 Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza solo perché qualcuno vi ha riferito che è un film beckettiano non dovrete lamentarvi se nella notte il fantasma di Samuel Beckett verrà a terrorizzarvi. Perché Beckett sta al regista svedese Roy Andersson come un’aquila reale sta a un piccione;appunto nulla. A meno che uno non abbia mai letto o mai visto le opere del grande irlandese, colui che ha rivoluzionato la storia del teatro e non solo, e allora nel film di Andersson può inserire qualsiasi paragone. Il motivo è semplice: i tragici no sense di Beckett avevano un’evoluzione, uno sviluppo narrativo pur nell’apparente ripetizione di gesti e frasi. Mantenevano tensione, si aprivano e chiudevano all’improvviso. I suoi personaggi-Strehler o il suo allievo Walter Pagliaro ne diedero splendida dimostrazione a teatro- erano spumeggianti di vita o almeno di quel sentimento di vitale frustrazione che permetteva loro di resistere pur nell’assoluta coscienza della sconfitta in quanto essere umani. La poetica e la tematica di Beckett stavano già nell’incipit del suo primo romanzo Murphy :<< Il sole splendeva, non avendo alternative, sul niente di nuovo >>. Ma poi da quella frase si srotolava come un gomitolo non solo la storia del libro ma l’intera letteratura del più grande scrittore-in senso allargato- del secolo. Ed ogni opera, ogni poesia, persino la sua incursione nel mondo del cinema con il magistrale << Film >> con Buster Keaton, diretto dal regista teatrale Alan Schneider, rimandavano a quell’incipit. C’era la ricerca esasperata da un lato di sconfiggere da parte dell’individuo l’oppressione del tempo e dello spazio e l’ubriacatura vitale di muoversi all’interno di quel cosciente labirinto di fallimento che è l’esistenza stessa. Mi pare quindi poco appropriato paragonare un film che ha qualche merito ma non quello né del ritmo né dell’evoluzione del dettato beckettiano. C’è qualcosa, sia chiaro: i suoi due protagonisti, venditori ambulanti di scherzi e oggetti carnevaleschi, possono rammentare- da lontano- Vladimir e Estragone. Solo che, rispetto ai personaggi di Aspettando Godot, loro si trovano in una fase successiva: non posseggono alcuna energia, sono maschere tragiche in piena accettazione del nulla. L’attesa di Godot dei due è soprattutto quella dell’idiota Jonathan che attraverso una vecchia canzone ascoltata di continuo riceve la conferma che prima o poi toccherà anche a lui raggiungere i genitori in un ipotetico al di là. Infatti, a differenza del mondo beckettiano, il film di Andersson non è altro che una riflessione grottesca, surreale, spietata sulla morte. Senza però troppi colpi di genio. Per un motivo: ne esistono ma sono troppo diluiti. Sarebbe bastato tagliare qualche scena per poter avere un risultato migliore. Così come è stato montato Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza risulta lento, prevedibile, spesso puro esercizio di (bello) stile. Lo spettatore << normale >> non lo regge, quello più avvezzo prova comunque una certa noia e si domanda cosa resterà, tra qualche anno, di un Leone d’Oro che fa il paio con la Palma di Cannes assegnata nel 2010 al controverso Lo zio Bonnmee che si ricorda le vite precedentidel regista thailandese Apichatpong Weerasethakul,che a me non era dispiaciuto (basta leggere cosa ne pensavo quando venne presentato): probabilmente niente di più di un riconoscimento.
SONO TRENTANOVE i piani sequenza di cui si compone il film. Trentanove autentiche opere pittoriche, splendide, dove imperano i colori tenui e dove spesso gli attori recitano impalliditi nei volti, come fossero esangui, morti viventi. Le quinte sono fondamentali; c’è sempre qualcuno o qualcosa da non perdere di vista oltre il personaggio o i personaggi in scena. I luoghi sono desolati ma composti, la tragicità è dipinta con pennellate di ambienti senza tempo, dimessi, né moderni, né antichi eppure pieni di decoro. Siamo a Goteborg e i due protagonisti, i venditori Sam e Jonathan risiedono in un ostello che Andersson ha ricostruito a immagine e somiglianza di un albergo dove viveva il fratello tossicodipendente. Tutte le altre maschere nude sopravvivono e girano negli stessi posti: una vecchia bettola con un orizzonte di pietra e di pali della luce; un altro locale dove tutto è rimasto uguale agli anni trenta, anche i commensali, una stanza dove si provano passi di flamenco, una abitazione spoglia, un ospedale e via dicendo. In queste stanze della vita quotidiana più che transitare l’umanità di Andersson resta. Vita e morte si consumano nella ripetizione delle frasi e dei movimenti. Si continua a parlare di felicità, di stare bene, di fare ridere. Ma come nessuno acquista gli oggetti carnevaleschi di Sam e Jonathan così nessuno si sdogana da ciò che accade. Ci sono, lo abbiamo accennato, spunti geniali, che spiazzano chi usa troppo la ragione. Non la bella scena nella locanda di << Lotta la zoppa >> dove il flash back e il finale disegnano uno dei più efficaci ritratti dell’evoluzione esistenziale, bensì l’ormai nota incursione, perché stracitata dai recensori, dell’esercito e di re Carlo XII nel bar prima della battaglia di Poltava, con il regnante folgorato dalle grazie del barista e subito dopo la lacerante sconfitta.Ma ciò, che in realtà, sorprende è proprio la bellezza delle scene, la chiara ispirazione a Otto Dix, soprattutto nei colori, e a Edward Hopper; la cura dell’angolo di ripresa e della prospettiva. Il film per l’occhio è davvero molto bello. Personalmente ho amato la scena della lite tra Sam e Jonathan, uno contro l’altro come in un film western, a fianco di un treno merci in partenza e con un senso di vuoto assoluto tutto attorno. Un po’ Kaurismaki, ma senza il suo estro, un po’ le vecchie comiche, con i personaggi trattati da burattini, il film si perde nel suo fin troppo lungo percorso. Si spegne, fatica a riaccendersi, per sovrabbondanza di scene ed è questo il suo limite più evidente oltre a cose già viste o ascoltate, tipo la scena su quale giorno della settimana è. Così anche l’impatto tragico, grottesco, perfido del contenuto viene a poco a poco a mancare. Ma la giuria veneziana, presieduta da Alexandre Desplat, è stata di diverso parere. Coraggiosi loro. Forse codardi noi che più di tanto non abbiamo amato questo film. Non perché sia difficile-è inusuale per il grande pubblico che è diverso dall’essere difficile- ma perché oltre lo stile ci sono cose che altri avevano spiegato ed evoluto meglio. Riguardarsi Film di Beckett per trovare conferma.