WILLIAM TURNER ha l’aspetto sgraziato di un uomo anziano che non ha mai conosciuto l’amore. Bofonchia spesso emettendo uno strano grugnito, vaga solitario per l’Inghilterra e l’Europa alla ricerca della luce perfetta. Nella Londra dell’800 lo conoscono tutti: è uno dei pittori più in vista; è famoso, benestante, vive in una bella casa assieme al padre che essendo stato uno dei barbieri più noti della città ci sa fare con i clienti e lo aiuta nel preparare i colori, l’intelaiatura e soprattutto intuisce i segreti della pittura del figlio e li indica ai potenziali acquirenti. Turner vive di sesso brutale e improvviso; ogni tanto lo consuma con la sua domestica che chiama damigella. Dalla sua famiglia precedente, una moglie, due figlie, un nipote, riceve solo scocciature che paiono scivolargli addosso. Sta bene con se stesso soltanto quando può cullarsi nella propria solitudine cercando allo stesso tempo di abbracciare i colori del mondo. I suoi occhi fissano particolari e sfidano gli agenti atmosferici. La sua ottica privilegiata è in effetti il terzo occhio che fa di un uomo un incredibile artista. Il suo autentico, profondo, sentimento è per ciò che riesce a osservare, fare proprio, manipolare. Schizza e dipinge in modo compulsivo. Fuori da quel mondo è un individuo fragile, segnato da buchi neri adolescenziali e da esclusioni. Indossa la maschera del cinismo, armatura privilegiata di chi ha un solo modo di esprimere i propri tumulti interiori. La doppiezza di Turner è il primo elemento che ha incuriosito Timothy Spall nel preparare il personaggio del grande pittore servitogli su un piatto d’argento da quel magnifico regista che è Mike Leigh. Per entrambi Mr Turner, che a Cannes 2014 è stato il rivale più accreditato per la Palma d’Oro de Il Regno d’Inverno di Nuri Bilge Ceylan, è un film particolare: per l’attore inglese perché lo consacra in modo definitivo dopo tante prove cinematografiche da spalla di lusso; per Mike Leigh perché è una prima incursione << ufficiale >> in un’epoca diversa dal contemporaneo che, come vedremo, assume valenza di assoluta modernità. Un po’come era la pittura di Turner.
QUESTO FILM è una storia di ossessione. Erano anni che Mike Leigh cullava il progetto. Il fascino della pittura di Turner aveva fatto breccia nel regista. Soprattutto, studiando le opere e la vita dell’artista, Leigh era rimasto incuriosito dalle possibilità cinematografiche anche allegoriche che l’uomo Turner poteva offrire. Un personaggio nato in un’epoca di passaggio dell’Inghilterra; da Giorgio III a Giorgio IV, da Guglielmo IV alla regina Vittoria. Il mondo di Turner è quello di un’Inghilterra divisa tra tradizione ottusa e improvvisi scatti di illuminante modernità, tra spocchiosa divisione sociale ed evoluzione rivoluzionaria in campo industriale. Tutte queste contraddizioni Turner se le porta appresso; nella pittura e nella sua vita. È un uomo anziano che proviene dalla working class ma che si è elevato socialmente. Frequenta i castelli dei nobili suoi mecenati, tiene conferenze con aria impacciata e parla sempre pochissimo. Si commuove ascoltando la patetica di Beethoven e adora cantare Purcell. Con i colleghi non fa gruppo se non quando è necessario. È dentro l’establishment culturale londinese ma allo stesso tempo ne è corpo estraneo, come comportamenti, ispirazione. Il vero leit motiv esistenziale è la solitudine, la sua incapacità di fare gruppo non per posa ma per indole. È puro ma sembra non possedere alcun tipo di sentimento. Soprattutto è un uomo-artista che osserva per essere travolto dal proprio osservare. A tenerlo in precario equilibrio esistenziale è l’arte. Ma anche essa è pura soddisfazione dei bisogni primari. L’unico autentico legame è quello di sangue con il padre. La sua domestica è semplice mezzo necessario. È l’altro volto che lui pare non possedere: pura dedizione a un sentimento di amore assoluto per il quale si accetta tutto e ci si mette in disparte, chiudendo, come nel magnifico finale, la porta al mondo esterno. Leigh quindi se ne sta lontanissimo dalla smania di creare una biografia cinematografica. Se ne infischia di mostrarci l’ascesa di Turner; agguantando il personaggio negli ultimi anni della sua vita, rifiutando qualsiasi ricorso a flash back o a salti temporali, lo spoglia, ce lo mostra nella propria nudità morale, ce lo consegna vero e autentico. Gioca con le sue contraddizioni, l’oscenità corporale, la lingua tagliente, l’iconoclastia- in senso figurato- artistica e stupefacente capacità di cogliere il senso di una bellezza non fine a se stessa, bensì tumultuosa come una tempesta in mare o sanguinosa come una battaglia. Ne indica la consapevolezza che deriva dall’approccio animalesco, istintivo, alla pittura. Dipingo quindi vivo. Il sole è Dio, il buio è tutto il resto. C’è nel Turner cinematografico l’ansia del proseguire, l’avanti del Faust di Sokurov perché il passare oltre è l’unica forma dinamica che l’artista conosce.Senza progetto, modo radicale di aderire all’esistenza. Leigh ha anche un grande merito:riesce a creare un processo di identificazione tra il personaggio Turner e lo spettatore che si sente partecipe del dramma che vive l’uomo, a conoscenza della propria condizione ma vitale, perspicace, in grado non solo di anticipare le tendenze artistiche che lo seguiranno. Interessante a questo proposito è come Leigh tratta tutta la parte, che parrebbe secondaria ma non è, relativa alla scoperta della fotografia e alla perspicacia del suo Turner di comprendere quanto rivoluzionario sarà il cambiamento che porterà nel mondo. Non è l’esaltazione, ulteriore, del terzo occhio dell’artista e un omaggio indiretto e quasi subliminale alla riflessione di cosa può essere il cinema?
MA NON C’È soltanto questo. È stato accennato in precedenza:ad affascinare, come scrittura di soggetto, è la relazione tra Turner e la propria domestica.Non è un personaggio di contorno, pur se parla pochissimo. Eppure la sua presenza nelle scene più esplicative del carattere del pittore è costante. È un’altra persona che osserva. Il suo sguardo è sempre lì, pronto a captare i cambiamenti umorali del protagonista. Come il pittore appare imprigionato dentro la propria scorza così la domestica è avviluppata da un sentimento totale di devozione. La sua luce si chiama Turner e ne è stritolata senza alcuna possibilità di potere fuggire. Condannata dall’uomo per sempre a differenza della signora Booth, l’amante che nel film si trasforma come compagna degli ultimi anni, anch’ella sconfitta da una vita di vedovanze continuate ma che in Turner ritrova la leggerezza della serenità e dona al pittore il senso di un sentimento fattibile, l’unico che sembra essergli concesso. Timothy Spall è il mattatore del film: l’assegnazione della Palma d’Oro per la migliore interpretazione a Cannes non è che un piccolo omaggio a una prova di una forza e maestria spaventose. La sua recitazione, basata sull’inglese dell’epoca, è una scala musicale di tutti i registri vocali e gestuali possibili e immaginabili. Il suo grugnire, il suo commuoversi, la sua immedesimazione nel personaggio credo resteranno negli annali della storia del cinema. Persino nel maneggiare pennelli e lapis, perché, a dimostrazione che il talento va sempre unito alla professionalità, Spall nell’accettare la parte ha frequentato almeno tre volte la settimana lezioni di pittura, di modo da essere pronto al lavoro che, per motivi di costi produttivi, è stato più lungo del previsto. Sono straordinari tutti quanti in questo splendido film. Dorothy Atkinson, la domestica Hannah, rivaleggia in bravura con il protagonista. È una quinta costante come il progressivo avanzare della psoriasi che ne deturpa i contorni a poco a poco, rendendola mostruosa, ingobbita, quasi inavvicinabile. Eppure i suoi occhi trafiggono, colgono l’essenza dei particolari,la dimensione della storia. È lei l’autentico terzo occhio del film, è dentro di lei che si annida il fantasma curioso, ficcante, profondissimo di Mike Leigh. Più semplice, ma è un parere personale, la parte recitata da Marion Bailey, una presenza quasi fissa nei film del regista inglese: la sua signora Booth è una donna non rassegnata. È anch’essa soggiogata dalla personalità di William Turner ma a lui riesce a donare scampoli di serenità e da lui riceverà quella luce e quella fiducia nella vita che la donna sembrava avere perduto.
ESISTE, però, un altro grande protagonista di questo film. È il direttore della fotografia Dick Pope, fedelissimo di Leigh che qui firma probabilmente il suo capolavoro. Ha studiato Turner, la sua pittura, il suo tempo. Ha visitato musei, osservato gli strumenti con i quali lavorava, approfondito la tonalità dei colori delle sue opere. Ed è arrivato a immergere il film delle stesse luminosità, coordinandole di volta in volta ai quadri e al periodo di riferimento. È tutto suo il merito che ci permette di accostare la perfezione scenica di Mr.Turner a pietre miliari del passato, Barry Lyndon per esempio, e di lasciarci stupefatti, ammaliati, in questo sogno ad occhi aperti che è forma in grado di rafforzare la sostanza. Arte allo stato puro. Grande cinema.