Un grande McConeughey non copre i difetti di Dallas Buyers Club

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RON WOODROOF doveva essere un tipo tosto: nel 1986 gli venne diagnosticato l’Aids, un’aspettativa di vita di trenta giorni, nell’epoca in cui moriva Rock Hudson e si pensava che nella tragedia della sindrome da immunodeficienza potessero cadere solo omosessuali o drogati di ogni specie. Woodroof non faceva parte della schiera: anzi faceva del sesso quasi una compulsione, era un etero convinto, un elettricista con la passione del gioco e dei rodei. Doveva vivere trenta giorni, riuscì a campare sei anni, fondando una società, il Dallas Buyers Club appunto, dove previa iscrizione di 400 dollari mensili si potevano sperimentare farmaci che sembravano essere molto più validi di quelli ammessi dalla Federal Drugs Administration statunitense. Lottando per la propria sopravvivenza Woodroof divenne quindi un contrabbandiere in piena regola ed ebbe il coraggio di mettersi contro la burocrazia e l’establishment Usa, dimostrando che i rimedi da lui trovati riuscivano se non altro a tenere in vita più a lungo dell’approvato Azt. Un bel tema per costruirci un film, un ottimo spunto per Matthew McConeughey per dimostrare, se mai ce ne fosse stato bisogno, di essere un attore capace di puntare all’Oscar per la migliore interpretazione maschile. Diciamo pure che con << Dallas Buyers Club >>è riuscito nello scopo e che il film diretto dal canadese Jean-Marc Vallée, ben sceneggiato da Craig Borten e Melissa Wallack è un abito sartoriale modellato sulle spalle e sulle forme ingracilite dell’attore americano. Oltre a questo c’è ben poco.

PREMETTO che questo non è un genere filmico che mi appassiona più di tanto. Quando il soggetto è realizzato ammiccando spudoratamente al facile applauso e all’indagine sociologica semplice e didascalica non è che si possa pretendere di passare alla storia del cinema. Ma riconosco in << Dallas Buyers Club >> alcuni meriti. Il primo che ci risparmia la lacrima facile e a comando. È un film tutto sommato sereno che se ne sta alla larga da molti luoghi comuni. Resteranno delusi i produttori di fazzoletti: in sala non si piange, piuttosto si seguono le avventure del protagonista con simpatia ma, almeno nel mio caso, con quel distacco che va a contrastare con la partecipazione assoluta. Il secondo è come è costruito, con una scansione temporale secca, con immagini curate, con una bella confezione. Il terzo è l’interpretazione di McConeughey bravo perché non cade nel tranello di voler calcare a tutti i costi la propria parte ma riesce a mostrarci la forza di un uomo che si mette a lottare a braccio di ferro con la morte e che in ogni caso esce trionfatore. Il quarto è che si tratta di un film a basso budget- per gli Usa sia chiaro-, girato in venticinque giorni: senza soldi alle spalle i miracoli non si fanno e alcune soluzioni di sceneggiatura per forza di cose devono andare verso la semplicità e la rapidità.

È PER QUESTOche risulta meno convincente e troppo facile la relazione tra Woodroof e il travestito Rayon interpretato dall’ottimo Jared Leto: si capisce fin dalla prima scena in cui i due sono coinvolti che tra l’etero convinto ed eccessivo e l’eroinomane affetto anch’egli da Aids la complicità diventerà assoluta, che la diversità sarà accettata e darà vita a una relazione umana, di amicizia autentica e profonda. Stessa cosa con la figura della dottoressa Saks, Jennifer Garner, il medico buono. Insomma tutte figure abbastanza scontate: sottolineano il cambiamento del protagonista, il suo progressivo mutare visuale, il ritrovare valori e senso, scoprire quel mondo fatto di sentimenti che prima sembrava non conoscere. Ma alla lunga la storia si sfilaccia e la seconda parte risulta purtroppo più debole della prima. Come se ci si trovasse di fronte a due film differenti. Un inizio coi fiocchi, molto ben costruito, e un proseguimento con troppe ripetizioni per poi tornare a un finale molto buono, dove non solo ci vengono evitate le scene strappalacrime ma si scelgono annotazioni precise e puntuali e alcuni artifizi, tipo il fischio nelle orecchie, che indicano l’approssimarsi della morte. << Dallas Buyers Club >> diventa quindi come quei romanzi che superano le 200 pagine e poco hanno da aggiungere alle prime centocinquanta. Forse in fase di montaggio una riduzione avrebbe giovato all’incisività sia per quanto riguarda l’aspetto socio-politico della trama, la battaglia del singolo contro lo strapotere della burocrazia, sia per caratterizzare ancora di più la figura di un uomo che rifiuta la morte e che diventa vitale, generoso, trovando la propria strada, il proprio scopo. Non so se McConaughey vincerà l’Oscar. Di fronte ritroverà il suo << adepto >> Leonardo DiCaprio di << Wolf of Wall Street >>, il sempre più bravo Christian Bale di << American Hustle >> e la << vecchia >> canaglia Bruce Dern di << Nebraska >>. È questa la quaterna dei papabili e McConaughey ci sta per meriti e non per grazia ricevuta. Il film è soprattutto lui con Leto altrettanto bravo nella parte del travestito. Certo però che scordarsi del duo Douglas-Damon nel sottovalutato ma ottimo << Behind the Candelabra >> fa un po’strano. Sono i tradizionali misteri delle scelte dell’Academy.

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