Quelle Anime Nere che giocano con l’immutabile

QUESTO è un film importante, un film bello, un film durissimo. Nella diatriba critica tra chi inneggia al capolavoro e chi lo liquida come prodotto di medio livello io sto con i primi. << Anime Nere >> di Francesco Munzi non è però una tragedia che echeggia Shakespeare. Piuttosto è costruito come un tragico western dove gli eroi non esistono, dove la speranza è annullata in partenza, dove le condizioni socioculturali non offrono appigli al cambiamento o alla salvezza, dove non esiste resurrezione. Non poteva esserci ambientazione migliore dell’Aspromonte calabro per consentire al regista romano il proseguimento di quell’indagine cinematografica che lo porta sempre ad approfondire temi attuali ma che appresso si portano un pesante passato. << Anime Nere >> diventa quindi la naturale evoluzione di << Il Resto della Notte >>. In quel film dell’ormai remoto 2008 Munzi poneva il proprio occhio curioso sulla linea d’ombra tra l’ immigrazione e l’integrazione quasi impossibile nel tessuto sociale metropolitano. Qui fotografa splendidamente la contraddittoria realtà dell’Aspromonte attraverso una storia di usuale ‘ndrangheta quotidiana, dove tutto profuma di morte dall’inizio alla fine, dove forse si sa già come andrà a concludersi il discorso, perché non c’è nulla di diverso dalle cronache che leggiamo periodicamente. Potrebbe essere un << action >> movie, l’ ennesima variazione sul tema delle mafie di casa nostra. Invece no. È un urlo, un grido di dolore che Munzi ci presenta senza finti compiacimenti, senza buonismo, senza il bianco e senza il nero. L’Aspromonte delle << Anime Nere >> è un mondo che non vuole cambiare, ancorato ai riti ancestrali del passato. Che nega la modernità ma allo stesso tempo la sfrutta con intuito, la modella e la fa propria, la adegua alle proprie esigenze di potere, al quale le faide, le alleanze che si sgretolano e si ricompongono sono del tutto funzionali. Così viaggiando tra Amsterdam, Milano e Africo lo spettatore si ritrova invischiato in un gorgo, lo stesso dal quale i fratelli Luigi, Rocco e Luciano e la loro famiglia non riusciranno a fuggire. Quello del passato che ritorna, che incombe, quello che non offre salvezza, che odora di morte perché così è stato e così deve essere in nome di una legge non scritta tramandata di padre in figlio. << Anime Nere >> è un film potente, che scuote le coscienze, che si gusta tutto d’un fiato, che si prende dei rischi pur nell’apparente linearità della trama e del suo svolgimento. Ed è un altro grande merito di Munzi che non ha la pretesa di impartire lezioni o di mostrarci ad ogni scena il colpo da maestro. La sua è una regia controllata, precisa, conscia dell’idea che per fare un film sia necessario soprattutto fare cinema e non propaganda personale attraverso l’ansia, insita in molti dei nostri << giovani >> autori- ma anagraficamente Munzi non lo è- di voler sempre dimostrare qualcosa. Il regista è il medium tra la storia e i nostri occhi.E questo Munzi fa. Giocando sui contrasti di colore, di scene, di soggetto.

ANIME NERE, lo abbiamo accennato, ha uno svolgimento magistrale. Parte dalla << modernità >> della ‘ndrangheta con una partita di cocaina trattata dal narcotrafficante Luigi ad Amsterdam. La scena successiva, a Milano, vede Rocco, imprenditore edile, ritirare soldi da dare in nero ai propri lavoratori edili che lo ringraziano. La terza vede il ricongiungimento tra Luigi e Rocco in una vettura nera che solca la campagna lombarda e al cui interno si comprendono bene le diverse carature dei due e dove, ma sarà lo spettatore a scoprirlo, ci sarà il primo debito da pagare con un passato che non si vuole cancellare. La terza invece porta chi osserva in un Aspromonte che sembra un mondo altro, un’isola senza tempo, una roccaforte metaforica dove la storia non è entrata e l’apparente immutabilità dei luoghi fa a cazzotti con le aspirazioni e le esigenze dei più giovani, già segnati comunque dagli antichi rituali di vendetta e dall’ambizione di fuga in nome del guadagno facile e non trasparente dei parenti che stanno a Milano. Quelli sono i modelli ai quali aspirare, non la silenziosa inettitudine forzata di Luciano, il terzo fratello, che è rimasto ad Africo a curare i pascoli, scegliendo di tenere lontani i fantasmi di un padre assassinato molto tempo prima. Sarà Leo, l’unico figlio di Luciano, a innescare la miccia che porterà la famiglia a riunirsi e la tragedia, definitiva, a consumarsi.

FRANCESCO MUNZI sfrutta tutto ciò che è possibile per dare l’idea di essere entrati in un mondo senza tempo. Il suo Aspromonte echeggia un piccolo grande film di qualche anno fa – lo straordinario << Le quattro volte >> di Michelangelo Frammartino recensito anche su questo blog- facendoci immergere in un territorio che ha la magia della bellezza allo stato puro e il sapore della polvere, con gli animali che osservano ciò che avviene nelle case,e in cui i rituali tra il sacro e la superstizione scandiscono attimi di esistenza. Ma rispetto all’opera di Frammartino, che verteva invece sulle fasi della vita e della morte, quella di Munzi, essendo appunto un western travestito, gioca sui contrasti. Così a solcare gli sterrati e le gibbosità dei sentieri di montagna sono potenti Suv e auto di lusso che arrivano in quello che sembra un territorio inviolabile. Una disarmonia voluta, emblematica, carica di simbolismo per specificare non l’impossibilità di iterazione tra i due mondi ma la cocciuta ostinazione di sfruttare il moderno per racchiuderlo nell’antico. Perché così è e così deve restare. Persino il drammatico finale pone più di una domanda che va ad infrangersi contro l’apparente semplicità dell’ultimo dramma. Munzi è bravissimo nel rendere semplici le cose difficili. È una dote. Non banale.

TRATTO dall’omonimo romanzo di Gioacchino Criaco, sceneggiato oltre che dal regista dallo scomparso Fabrizio Ruggirello e da Maurizio Braucci, << Anime Nere >> si affida a pochi ma eccellenti attori professionisti. I tre fratelli, Peppino Mazzotta, Fabrizio Ferracane e Marco Leonardi sono accompagnati dalla recitazione misurata di un’ottima Barbora Bobulova, figura importante in quanto è l’unico personaggio del nord che si sente estraneo alla dinamiche della famiglia, e dalla maschera di quella grandissima attrice che è Aurora Quattrocchi, ormai abituata alla parti della madre dopo la prova offerta in << È stato il figlio >> di Daniele Ciprì. E assieme a loro gli abitanti stessi di Africo che hanno prestato con entusiasmo volti e capacità o giovani calabresi come Giuseppe Fumo, interprete di Leo figlio di Luciano, che da debuttante lascia senza fiato per professionalità e carica espressiva imposte dal suo ruolo. Alcuni hanno visto in << Anime Nere >> un pugno in faccia alla Calabria e all’Aspromonte: per me non è così.Munzi non condanna, non applaude. Offre uno sguardo amaro. Lasciando il sospetto che Anime Nere non sia solo un affresco dell’Aspromonte ma riguardi tutti noi, l’uomo e la sua condanna alla non salvezza.

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